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C’è una ombra minacciosa che incombe stavolta sui tassisti, e che scompiglia il campo anche tra i fautori delle liberalizzazioni: l’irrompere delle piattaforme della sharing economy. Per ora l’hanno scampata. Ai tempi del governo Monti, il problema era rappresentato solo dal numero eccessivamente esiguo delle licenze. La diga degli strumenti amministrativi di regolazione del mercato, sembrava franare per via di un emendamento parlamentare al consueto decreto-legge milleproroghe: di qui la rivolta. C’è stato un accomodamento: insieme alla nuova normativa volta ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio noleggio con conducente (NCC), si continueranno a contrastare anche i comportamenti “comunque non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia”. Così recita testualmente l’accordo siglato tra le organizzazioni rappresentative delle categorie ed il Ministero delle Infrastrutture. In pratica, si dovrebbe vietare ancora il comportamento di coloro che, usando la propria automobile e con il supporto di una piattaforma informatica e di telecomunicazioni che mette in contatto domanda ed offerta di trasporto di persone, una normalissima app scaricabile su tutti gli smartphone, si mettono a fare i “tassisti fai da te”: dove, come e quando vogliono.

Non è più, semplicisticamente, una guerra che vede vincenti i pochi privilegiati tassisti, e perdenti i consumatori, a cui verrebbero estorte tariffe molto più elevate rispetto al prezzo di mercato cui si tenderebbe se venisse rilasciato un numero maggiore di licenze. Premono sul mercato i tanti privati che hanno a disposizione una automobile e sono disponibili ad offrire il servizio ad un prezzo notevolmente più basso, utilizzando una delle tante piattaforme già diffusissime su internet.

Si ripropone, in forma molto diversa dal passato, quello che è stato per anni il vantaggio competitivo dei radiotaxi rispetto ai conducenti che attendevano il cliente o la chiamata telefonica alla colonnina istallata nei posti di stazionamento. Allora, il conflitto era tutto interno alla categoria, visto che la tecnologia avvantaggiava i radiotaxi: potevano accettare un nuovo servizio mentre erano impegnati a concludere un’altra corsa, o comunque transitavano nelle vicinanze. Stavolta il passaggio è dirompente, perché la tecnologia apre l’offerta del servizio anche a coloro che non hanno alcuna licenza, ma sono semplici privati che si rendono disponibili per l’occasione.

La sharing economy è un fenomeno che travalica il semplice utilizzo delle tecnologie, poiché modifica i rapporti tra produttori e consumatori, associando i consumatori tra di loro, ovvero trasformandoli temporaneamente in nuovi produttori.

Il fenomeno dilaga: dal trasporto urbano in alternativa al taxi, alla ospitalità domestica in alternativa agli alberghi, fino alla preparazione dei pasti in casa che sostituisce la ristorazione tradizionale. Mettere in affitto il proprio appartamento quando si va in vacanza, o comunque qualche camera con una certa continuità, ovvero rendersi disponibili nel tempo libero per condurre una persona da un posto all’altro con la propria auto, ovvero preparare nella propria cucina un pranzo a pagamento, implica la messa a disposizione sul mercato di un bene, di una attività o di un tempo altrimenti destinato alla fruizione esclusivamente personale, familiare, o al più amicale.

Ciò comporta la formazione a livello sociale di un nuovo capitale produttivo attraverso la semplice trasformazione della destinazione d’uso di ciò che in precedenza aveva una funzione privata, creando una offerta sul mercato ulteriore rispetto a quella tradizionale. Stavolta, anche un atteggiamento luddista è impraticabile, perché non c’è un telaio automatico che sostituisce il lavoro, ma l’irrompere sul mercato, attraverso piattaforme su internet, di una nuova offerta di lavoro e di servizi tendenzialmente sterminata.

Si ripropone, all’inverso, il processo che portò alla formazione della proprietà privata, con la rivoluzione inglese e francese, attraverso la eliminazione del sistema medievale basato sulle terre comuni e sul lavoro servile a favore del feudatario. Allora si rivendicò la proprietà individuale della terra, che rappresentava la principale condizione della produzione insieme al lavoro umano, come strumento di indipendenza economica e quindi libertà effettiva. Oggi, in un assetto capitalistico e di libertà d’impresa, con la sharing economy tutto ciò che è privato, esclusivo ed individuale ritorna ad essere messo in comune, attraverso i nuovi strumenti di infeudamento rappresentati dalle piattaforme informatiche che organizzano le relazioni, dalle regole inviolabili alle pretese economiche, misurate in percentuale sul valore della prestazione o del lavoro svolto. E’ una forma di mezzadria esercitata addirittura sul bene altrui, una gabella, tale e quale quella pretesa dalla aristocrazia terriera di una volta. La piattaforma funziona solo se una intera comunità accetta: l’impoverimento della classe media, con l’abbandono del consumismo individualista a favore della più frugale fruizione collettiva, è dunque la condizione indispensabile che porta a far attecchire questo nuovo paradigma. Mentre tra i comuni mortali trionfa la deprofessionalizzazione, la deidenfificazione e la decostruzione organizzativa, l’apice opposto diviene sempre più concentrato, stabile e pervasivo: feudalesimo, duro e puro. Per fornire servizi affidabili, le “piattaforme” devono imporre controlli, effettuare verifiche, stabilire condizioni. Non c’è nulla di democratico, né di solidale, né tanto meno di equo in queste nuove forme di organizzazione oligopolistica del mercato, sempre più pervasive, prepotenti ed irrispettose di qualsiasi regola. E, quel che è peggio, viene meno la distinzione ancora più fondamentale ed antica, tra i tempi di vita e di lavoro, tra otium e negotium. Questa processo si innerva nella stagnazione, con la caduta dei redditi, dei consumi e dei traffici, che riporta come già nel Medio Evo alla creazione di sistemi di potere basati sullo scambio tra sottomissione e beneficio, rispetto a cui ogni altra regola civile è recessiva.

Siamo dunque alla terza fase della trasformazione di internet. Già le piattaforme di ricerca di informazioni, dove il denaro non circola a ritroso rispetto alla fornitura del servizio reso, come avviene in ogni circuito economico ordinato, hanno sconvolto il mondo dell’informazione e dell’editoria, tuttora senza modelli di business sostenibili. Siamo passati poi alle piattaforme di e-commerce che stanno cambiando completamente il modo con cui si distribuisce e si produce. Emergono ora le piattaforme della sharing economy, che cambiano il modo in cui beni e servizi vengono offerti e acquistati, in cui produttori e consumatori si scambiano continuamente ruolo ed identità. Pochi grandi gruppi hanno ormai in mano segmenti interi della vita della popolazione mondiale, con una progressione inscalfibile basata sul modello di business in cui “paga la terza parte e comunque si risparmia”.

Le tensioni di piazza di questi giorni, con i taxi fermi e qualche tafferuglio, sono il segnale di come una vicenda tanto nota, quanto trascurata, possa essere strumentalizzata politicamente, scompigliando priorità e piattaforme programmatiche.

C’è un unico principio, ora, che occorre ristabilire, anche nella web economy: il rispetto delle normative che disciplinano l’accesso al mercato, la fornitura dei servizi corrispondendo il giusto compenso a chi ha la titolarità dei diritti, il rigore della fiscalità. Non si possono chiedere da una parte sempre più controlli sanitari e di igiene nei ristoranti, e lamentarsi se non rilasciano la ricevuta fiscale, per poi lasciare che fiorisca il mercato parallelo delle trattorie domestiche. Lo stesso vale per gli alberghi, che sono imprese soggette alla fiscalità generale ed alla esazione di tributi speciali, come la tassa di soggiorno: chi fa concorrenza, mettendo a disposizione la propria casa, offre un prezzo assai vantaggioso perché non ha né oneri organizzativi, né fiscali. Nel frattempo, le piattaforma di servizio macinano utili a miliardi, pagando le imposte dove fa più comodo, come constatiamo tutti i giorni, con le fatture delle compagnie aeree low cost, delle società di autonoleggio, e di qualche produttore di smartphone che vengono emesse comunque in Irlanda. Con il risultato che il pil di Dublino cresce ed a Roma la cassa del fisco si svuota.

Ogni arretramento è fatale, irreversibile, come si è visto nel settore dell’editoria: il problema non è solo economico, per il mancato pagamento del giusto compenso agli editori ed agli autori che porta al fallimento di un’intera industria. Emergono con sempre maggiore frequenza le polemiche sulla post-verità, e la preoccupazione sulla diffusione delle notizie false e su quelle verosimili.

O c’è il rispetto delle regole da parte di tutti, quelle fiscali in primo luogo, o subentra la prepotenza del mercato, con i feudatari del web che distruggono le forme organizzate della produzione e ci riportano al feudalesimo. Cominciando ad attaccare le categorie professionali che vengono considerate privilegiate, un passo alla volta.

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