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Noterelle sulla storia del potere femminile (a proposito dell’8 marzo)

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Quando Matteo Renzi propose solo donne come capolista alle elezioni europee (maggio 2014), un notabile meridionale del Pd masticò amaro, mal sopportando di essere scalzato da una cinquina da lui bollata come uno specchietto per le allodole. Essendo un magistrato (in aspettativa), Michele Emiliano conosceva sicuramente Les six livres de la République (1576), in cui il giurista Jean Bodin confinava le donne ai margini della vita civile, ritenendo che dovessero occuparsi solo delle faccende domestiche. Beninteso, sono certo che il governatore pugliese non oserebbe pensare che Alessandra Moretti, tanto per fare un nome,”c’est la peste de l’air, l’Erynne envenimée”. Proprio così, infatti, il poeta protestante Théodore Agrippa d’Aubigné descriveva nel 1616 Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II e dal 1560 reggente di Francia. Secondo la storica Cesarina Casanova (Regine per caso, Laterza, 2014), l’Erinni velenosa – che rende irrespirabile l’aria con la sua perfidia e le sue diaboliche macchinazioni – è il distillato di tutti i cliché che il Rinascimento attinge dalla cultura misogina medievale: la donna al potere vista come una beffa della natura, tendenzialmente strega, lussuriosa, incestuosa, eretica.

Se il Socrate dei dialoghi platonici non escludeva la possibilità per la donna di accedere a posizioni di comando, la genesi di questa immagine risale ad Aristotele. Nel terzo libro della Politica, lo stagirita non la menziona nemmeno tra le categorie dei “non-cittadini”. Con l’eccezione di Euripide, la tragedia greca è piena di figure femminili lascive e dal genio distruttore. Il mito di Pandora, raccontato da Esiodo, attribuisce a una donna l’origine delle fatiche e dei dolori dell’umanità. Nelle epistole paoline, poi, la sottomissione della donna al potere maschile è categorica. Nel mondo greco-romano come in quello giudaico-cristiano, insomma, la tradizione misogina si radicava in una gerarchia dei sessi costitutiva della stabilità del nucleo familiare e, insieme, dell’incremento demografico.

Nell’alto Medioevo, Matilde di Canossa (1046-1115) è la personalità femminile più leggendaria della sua epoca. Protagonista assoluta della lotta per le investiture, che contrapponeva pontefici e imperatori germanici sul problema delle nomine vescovili, spaccherà l’opinione pubblica europea. Per il suo sostegno a papa Gregorio VII, verrà paragonata dai ghibelllini all’empia Jezabel dell’Antico Testamento, dai guelfi alla Vergine Maria. Del resto, come ha messo in evidenza Jacques Le Goff, il culto mariano dotava le donne di uno status ammantato di un’aura religiosa, fino alla santità.

I margini di autonomia femminile nella società feudale si consumano progressivamente nel corso del Trecento. Si fa strada una nuova idea di famiglia, che diventa il fondamento su cui poggiare l’edificio dello Stato moderno. La sua coesione viene perciò considerata di vitale importanza, e i legislatori non risparmieranno accorgimenti per metterla al riparo dalle potenziali minacce -l’irrazionalità, l’incostanza- derivanti dalla natura femminile. Nel Quattrocento giuristi e eruditi umanisti mutuano e sviluppano dal sapere medico e dal diritto romano i concetti di “fragilitas et infirmitas sexus”. Viene teorizzata quella inferiorità che autorizzava l’esclusione delle donne dai “virilia officia” (guerra e governo) e dalla successione nei feudi, “ob garrulitate” (per petulanza) e perché “foeminae sua natura dominationis cupidae sunt” (per connaturata sete di potere).

La riscoperta della legge salica, che riservava la continuità dinastica solo alla discendenza maschile, avviene in questo contesto. A partire dal quattordicesimo secolo e per tutta la durata del Rinascimento, diverse generazioni di giuristi si ingegneranno per renderla irreversibile. Nondimeno, nella Francia cinquecentesca l’arretramento della condizione sociale della donna coinciderà con un sorprendente progresso del suo prestigio intellettuale. Sulla scorta del “De claris mulieribus” di Boccaccio, tradotto su impulso di Anna di Bretagna, moglie di Carlo VIII, nasce un filone letterario destinato a una lunga fortuna, centrato sull’elogio della “femme forte” e della “femme savante”.

C’è stato, allora, un Rinascimento per le donne? Le risposte a questa domanda, formulata per la prima volta nel 1972 dalla studiosa americana Joan Kelly-Gadol, non sono state univoche. Ma, alla  prova dei fatti, mai come nell’Europa del Cinquecento un numero tanto rilevante di donne -figlie, sorelle, mogli, madri, amanti- ha avuto accesso ad elevate responsabilità o ha governato in prima persona. Farne l’elenco completo non è possibile. Basti ricordare il nome di Caterina de’ Medici (1519-1589), che per trent’anni reggerà la Francia in uno dei periodi più tragici e sanguinosi della sua storia. In una celebre requisitoria, Jules Michelet ne farà l’incarnazione della doppiezza e della cattiveria femminile. Nella Comédie Humaine, Honoré de Balzac ne esalterà invece la politica di tolleranza e di riconciliazione, che avrebbe consentito alla monarchia transalpina di superare una delle sue prove più difficili dopo ben otto guerre di religione e il massacro degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572).

Questo illustre corteo di signore al potere non rivela un miglioramento giuridico della condizione delle donne. Dimostra tuttavia che molte tra loro hanno saputo far valere le proprie ambizioni e la propria intelligenza – e anche la loro bellezza – a dispetto dei pregiudizi maschili. Tuttavia, come ha scritto Benedetta Craveri in Amanti e regine (Adelphi, 2008), per quanto spettacolari i loro successi costituiscono la somma di casi individuali, non si saldano mai in un’unica storia. Perché ” la Storia rimane appannaggio ufficiale degli uomini, e per inserirsi nei suoi ingranaggi senza venirne stritolate, bisogna mascherarsi, giocare d’astuzia, crearsi alleati potenti, distribuire favori, sedurre, corrompere, punire – e sapere, al momento giusto, uscire di scena”.

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