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Ecco come la Repubblica oscilla sul Matteo Renzi del Lingotto di Torino

La scissione a sinistra, consumatasi nel Pd per la decisione di Matteo Renzi di rimontare sul cavallo dal quale era stato disarcionato con la sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, si è specchiata sulla prima pagina della Repubblica di carta con i giudizi opposti riservati dal fondatore Eugenio Scalfari e dall’editorialista Massimo Giannini al discorso dell’ex presidente del Consiglio al Lingotto. Dove il raduno dei renziani si è concluso oggi con un altro intervento dell’uscente e ormai rientrante segretario del partito alla significativa e attesa presenza di Paolo Gentiloni. Il quale ha voluto così confermare, col saluto dello stesso Renzi e fra gli applausi riservatigli dal pubblico, la consonanza di idee col suo predecessore a Palazzo Chigi, a dispetto di chi scommette ripetutamente su qualche contrasto fra di loro anche dopo il tramonto del progetto di elezioni anticipate attribuito al vertice del Pd.

Massimo Giannini – i cui estimatori attribuiscono proprio a Renzi, a torto o a ragione, la responsabilità della perdita di Ballarò, sulla terza rete televisiva della Rai, a causa di un urticante commento alla vicenda della Banca Etruria e del vice presidente Boschi, papà dell’allora ministra Maria Elena – nel discorso dell’ex presidente del Consiglio al Lingotto ha avvertito solo o soprattutto “i soliti muscoli del capitano”. E’ un po’ quello che hanno lamentato l’ex capogruppo alla Camera Roberto Speranza e il governatore toscano Enrico Rossi, entrambi usciti dal Pd piuttosto che misurarsi nelle primarie con chi avevano pur sfidato prima della convocazione del congresso.

Scalfari invece, in un editoriale una volta tanto tutto politico, senza premesse e condimenti di storia, filosofia, arte e quant’altro, come gli capita spesso di fare nei suoi appuntamenti domenicali con i lettori, ha dato del discorso di Renzi un giudizio “complessivamente positivo”. Anziché “i soliti muscoli” indicati da Giannini, il fondatore di Repubblica ha avvertito “carisma” nell’ex presidente del Consiglio, riconoscendogli il merito di avere meglio piazzato a sinistra il Pd, e non solo per avere chiamato  sinceramente e non sarcasticamente “compagni” i suoi interlocutori.

Si deve forse proprio alla più marcata posizione di sinistra voluta per il Pd, non a caso portato proprio da Renzi tre anni fa nella famiglia del Partito Socialista Europeo, quella “dose notevole di demagogia” che Scalfari ha rimproverato all’ex presidente del Consiglio. Sino a fermarsi al “positivo” e non spingersi all’”ottimo” nella valutazione finale del discorso.

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D’altronde, a sinistra è sempre stato difficile tracciare i confini precisi tra realismo e demagogia. Basterà pensare al lunghissimo e storico scontro tra riformismo e comunismo, o fra socialdemocrazia e comunismo, quando i riformisti e i socialdemocratici erano bollati come traditori dai comunisti. Che erano  utopisti sino sacrificare la democrazia e, peggio ancora, la vita dei loro avversari, e a volte persino la propria.

Rispondono alla volontà di tenere a sinistra il Pd, quasi a proteggerlo dall’accusa dei fuoriusciti di averlo portato troppo a destra nei mille giorni e più del suo governo, anche la promozione del ministro Maurizio Martina, proveniente dai Ds-ex Pci, a numero 2 del partito nella nuova gestione renziana, e l’ospitalità offerta sotto le volte del Lingotto a Emma Bonino. Che non ha certamente deluso il padrone di casa col suo discorso che più a sinistra non poteva essere sul terreno spinosissimo dell’immigrazione: una specie di maledizione secondo la destra, una “risorsa” invece secondo la radicale italiana più famosa nel mondo, forse più del compianto Marco Pannella.

Con quel quasi turbante in testa, indossato per coprire gli effetti della sua coraggiosa e vincente lotta al cancro, e quel suo fisico minuto e asciutto, Emma sembrava al Lingotto una versione laica di Madre Teresa. E, accolta dalla platea con un entusiasmo che l’ha persino imbarazzata, tanto da chiedere ai presenti di trattenere un po’ quegli applausi perché si accingeva a deluderli, la Bonino ha denunciato una delle tante contraddizioni di chi ha “paura” degli immigrati ma affida loro sempre più frequentemente la “badanza”, cioè assistenza, di ciò che dovrebbe esserci più caro: “i nostri vecchi”.

Come dare torto su questo piano, in verità, ad Emma? Alle cui aperture e generosità hanno ritenuto di dovere poi aggiungere, se non opporre, le esigenze della “sicurezza” e di una “doverosa risposta alla paura” esponenti del renzismo come Nicola Latorre, ex dalemiano, e il governatore campano Vincenzo De Luca. Qualcuno è stato sentito mormorare, fra il pubblico, che con le idee della Bonino sull’immigrazione il Pd scenderebbe non del ma al 3 per cento dei voti. Forse è esagerato, ma di sicuro non guadagnerebbe consensi.

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Immigrazione a parte, di cui comunque non basta cavalcarne la paura per ottenere popolarità, come dimostra la guerriglia scatenatasi a Napoli contro il segretario leghista Matteo Salvini con l’incoraggiamento addirittura del sindaco Luigi De Magistris, lasciatemi rimproverare a Renzi il ritardo col quale ha scoperto, diciamo così, Emma Bonino. Che egli avrebbe fatto non bene ma benissimo tre anni fa, quando arrivò a Palazzo Chigi allontanandone con le cattive maniere Enrico Letta, a confermarla alla Farnesina.

L’esponente radicale era stata e avrebbe continuato ad essere, nonostante il tempo e le energie sottrattele temporaneamente dalla malattia, una eccellente ministra degli Esteri. Alla quale invece Renzi preferì una meno esperta -vogliamo definirla così per cavalleria?- funzionaria di partito poi trasmigrata, peraltro, a Bruxelles.

Oltre al ritorno della Bonino va segnalata a favore del raduno renziano al Lingotto l’ovazione -che ha tanto indignato, non a caso, il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio- riservata all’ottantacinquenne Biagio De Giovanni quando ha protestato contro “la Repubblica giudiziaria” prodotta dalla tracimazione della magistratura, e dalla conseguente subalternità della politica.

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