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Perché il Pd di Matteo Renzi che esce dal Lingotto mi pare rattrappito

Lingotto, 5 stelle, molestie

Matteo Renzi vincerà le primarie del suo partito, a meno di non prevedibili o ipotizzabili colpi di scena. Ma quello che esce dal Lingotto è un leader che ha perso mordente, il cui messaggio ha dovuto fare troppe concessioni allo “zoccolo duro” di quella sinistra a cui cui piace restare “incatenata”. Come è potuto succedere in soli tre anni e dove Renzi ha sbagliato? Come giudicheranno gli storici del futuro il suo tentativo? E, soprattutto, noi, italiani di oggi, che prospettiva abbiamo di cambiamento per il nostro stanco e declinante paese, in primo luogo per il suo sistema politico di cui il PD continua ad essere una delle pedine più importanti o centrali? Renzi ha impostato la sua politica, e soprattutto la sua attività di governo, individuando con precisione i problemi dell’Italia, accumulatisi e aggravatisi negli anni, e quelli, spesso con i primi coincidenti, della nostra sinistra (chi dice che non aveva “visione” e che solo gli “intellettuali” possono darla a un partito? E chi crede ancora alla “favola” che il riformismo fosse l’habitat naturale del partito che Renzi aveva ereditato e persino del vecchio PCI?).

Renzi ha poi anche iniziato una larga politica riformatrice e riformista, seppure molto timida e contraddittoria. Limiti evidenti ma che forse, politicamente, tali non erano, visto che quelle riforme, pur necessarie, dovevano incardinarsi in un sistema anchilosato e in preda ai “poteri forti” di corporazioni (in primis quella dei magistrati) che, da un momento all’altro, avrebbero potuto tutto bloccare e mandare all’aria. Chiamasi realismo politico, o senso della realtà, il quale deve di necessità accompagnare l’azione, pur mossa da ideali e “visione”, del politico.

Non era nemmeno sbagliato, anzi il contrario, individuare nella “riforma costituzionale” (anch’essa timida e contraddittoria) la “madre di tutte le riforme” (il terreno delle regole per un liberale è prioritario) e, insieme, il grimaldello, anche simbolico, da cui ampliare l’orizzonte riformistico.

Il problema è che però Renzi è arrivato al voto referendario, che ha segnato la sconfitta del suo progetto, commettendo proprio quegli errori di scarso realismo o di mancanza di senso del reale che, come dicevo, ad un politico non dovrebbero mai far difetto. Ha perso contatti con la realtà, ha peccato di orgoglio, non ha capito come era fatto in maggioranza il paese che aveva davanti e che era stato forgiato nella mentalità, nei modi, e persino nei riflessi incondizionati del pensiero, da anni e anni di egemonia di quella che non è sbagliato definire la “ideologia italiana” (basata proprio sul mito della “Costituzione più bella del mondo”). Errore esiziale per un politico, susseguente a quello, anch’esso dettato dalla superbia e dal “delirio di onnipotenza” (cioè appunto da scarso senso del reale), che è consistito nella rottura del cosiddetto “patto del Nazareno”. Il quale, esistente nei fatti prima ancora che in accordi forse nemmeno mai neppure accennati, imponeva che tutte le scelte più importanti, a cominciare da quella del presidente della Repubblica, fossero non dico concordate con Berlusconi ma sottoscritte anche da lui.

È da lì che iniziano, con molta probabilità, i guai di Renzi, il quale si è allora sentito tanto forte da poter fare a meno del Cavaliere che comunque credeva di avere in pugno. E a cui ha anzi ritenuto pure opportuno mandare il messaggio su chi, fra i due, fosse l’uomo forte. Pretesa insensata, visto che chi fosse l’uomo forte Berlusconi lo aveva anche sancito simbolicamente, recandosi lui, orgoglioso sì ma anche realista, nella sede del PD, a casa di quei “comunisti” che aveva visto sempre come il nemico da combattere e annientare.

Qui, ovviamente, il problema non è Berlusconi, ma sono quei ceti moderati e liberali che egli in qualche modo rappresenta. E con i quali Renzi deve di necessità allearsi, visto che in quel campo oggi più che mai non gli è dato sfondare. Senza quella alleanza, le politiche identitarie che già si sentono forti, “reincateneranno” la sinistra, impedendole nel contempo di governare il paese. E faranno sì che, ancora una volta, la destra liberale dovrà allearsi con la destra radicale e lepenista.

Liberarsi dalla sinistra più o meno radicale significa liberare anche la destra moderata e liberale. E che Berlusconi si tenga oggi con il piede in due staffe, e che abbia silurato Stefano Parisi, la dice lunga a tale riguardo.

Lo scenario cui si va incontro è perciò quello della coesistenza di una destra pastrocchio, di un movimento 5 stelle velleitario, demagogico e inconcludente e di una sinistra che, rimirandosi l’ombelico, non ha la forza di governare ma certo ancora quella di bloccare il paese. Uno scenario da incubo per il nostro paese. E che forse solo un rinnovato, seppure allo stato dei fatti politicamente non facile, “patto del Nazareno” potrà evitarci.

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