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Perché gli jihadisti hanno terrorizzato Stoccolma

islam, Jidideh califfato, barcellona

Stoccolma come Nizza, Berlino, Londra. L’attacco di ieri nella Drottningatan, la strada dello shopping della capitale svedese, si pone nella stessa sequela, viste le sue modalità. Un camion rubato come quello di Anis Amri, l’attentatore di Berlino del dicembre 2016. Il veicolo lanciato a tutta velocità sulla folla, come il Suv che Khalid Masood ha guidato sul marciapiede del ponte di Westminster lo scorso marzo. Una corsa lunga 500 metri che ha travolto tutto, come nella Promenade das Anglais di Nizza, quando 86 persone furono schiacciate a morte dal Tir noleggiato dal tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhlel.

Anche se non è arrivata la rivendicazione, la firma sembra essere proprio quella dello Stato islamico. Nei loro canali internet, i militanti e simpatizzanti del movimento jihadista hanno infatti subito esultato, precisando che la Svezia rappresentava un obiettivo legittimo, essendo impegnata nell’addestramento degli “eretici” peshmerga curdi. I comunicati emessi dopo i recenti attentati in Europa spiegavano tutti che gli autori degli attacchi avevano “risposto alla chiamata” dello Stato islamico di “colpire i paesi della coalizione” anti-IS. E li definivano “soldati” del califfato, parte di quell’esercito invisibile che vive e si muove in Europa. Individui che sbucano dal nulla per obbedire alla chiamata dell’ormai defunto portavoce dello Stato islamico Mohammed al-Adnani, che nel settembre 2014 aveva esortato i musulmani occidentali a colpirci con ogni mezzo, fosse esso un veicolo o un coltello. Appello ribadito a oltranza, l’ultima volta pochi giorni fa per bocca del nuovo portavoce dell’IS.

Un attacco nel paese scandinavo era nell’aria anche alla luce dell’esplosiva miscela demografica e culturale che caratterizza una terra universalmente nota per il suo generoso welfare state e per le attitudini pacifiche e cosmopolite del suo popolo. La Svezia ha accolto quasi 200 mila rifugiati nel 2015, un numero che, pro capite, supera quello della Germania di Angela Merkel. Ma i recenti arrivi sono solo parte di un quadro di degrado e tensioni sociali, localizzate nei vari suburbi delle città svedesi. Malmo, Rosengard, Rinkeby sono i nomi delle “no go zones” che la cronaca associa all’autosegregazione degli immigrati, alle ronde islamiche che obbligano le donne a portare il velo, al verbo jihadista che circola incontrollato dentro e fuori le moschee. Il contesto in cui è maturato l’attacco di ieri è una delle tante bombe a orologeria che ticchettano nel Vecchio Continente. E pensare che Trump, quando in un comizio di febbraio denunciò la situazione in cui versa la Svezia, fu ridicolizzato a livello globale. Invece le sue parole ora risuonano profetiche.

Il problema con cui deve misurarsi la Svezia è lo stesso che devono affrontare tutti i paesi europei in cui si sono insediate consistenti minoranze islamiche. È la diffusione a macchia d’olio di un’ideologia di morte che trova risonanza in menti già aduse alla predicazione estremista. Versioni intolleranti della religione islamica che sono state promosse, con la forza d’urto dei petrodollari, in Europa come nel resto del mondo, trasformando progressivamente una religione mondiale in una fonte di allarme per le intelligence di tutto il pianeta. La manipolazione jihadista del Corano e del corpus scritto dell’islam è la sfida con cui dobbiamo misurarci, urgentemente, per evitare che il terrorismo diffuso che lo Stato islamico vuole promuovere realizzi altri exploit. Occorre prosciugare i rivoli d’odio e intolleranza, neutralizzare le classificazioni in bianco e nero dell’umanità, che lo Stato islamico vorrebbe suddividere tra veri credenti e un immane resto composto da soggetti corrotti da eliminare.

È un compito immane, che richiederà generazioni e investimenti generosi da parte dei nostri governi. Per immunizzare i giovani da questo contagio, evitando che il verbo della guerra santa mini alla radice la pacifica convivenza tra autoctoni e immigrati. Non sarà semplice, ma è l’unica via.

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