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Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Ubi. Cosa fare con gli Npl secondo Mediobanca

Il male atavico delle banche italiane? I Non performing loan: sofferenze, crediti incagliati e inesigibili, insomma tutto quello che la banca ha prestato e fa fatica a recuperare. Una montagna pari a 359 miliardi (200 miliardi le sofferenze) che la crisi ha contribuito a far diventare più alta. Da sempre accusati di essere l’ostacolo all’erogazione del credito all’economia reale: ma è davvero così? La Bce ritiene di sì e spinge perché le banche se ne liberino, ma potrebbero essere in realtà un capro espiatorio. E la cessione frettolosa sul mercato potrebbe peggiorare ancora la situazione reddituale degli istituti di credito, in quanto sul mercato le sofferenze di vendono a un prezzo di circa il 20% in meno rispetto a quello che la banca recupererebbe con una gestione in house. Vediamo in dettaglio perché.

Npl ratio elevato da sempre
“L’NPL ratio italiano è elevato da molti anni, già prima della crisi – scrive Gabriele Barbaresco, area studi Mediobanca – Molte le cause: fiscalità svantaggiosa (recupero delle perdite), giustizia civile inefficiente, difformità nel riconoscimento dei NPLs (più severo in Italia). Dove la crisi è stata più severa, ovvero Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, gli Npl sono cresciuti di più”. Ma il ratio dell’ Italia (il rapporto tra Npl e impieghi totali) a fine 2015 era di circa il 18% contro il 6% della Spagna e il 12% del Giappone: dunque la crisi spiega molto ma non tutto.

Popolari e Bcc svantaggiate
“Secondo l’Abi – continua Barbaresco – l’80% della crescita dei NPls italiani tra 2007 e il 2014 è dipesa da tre “spread” italiani: giustizia (49%), bassa crescita (34%) e tassi (17%)”. Ora la priorità, anche su indicazione dell’Europa, è liberarsene. Intanto, il peso delle svalutazioni crediti sui ricavi è maggiore per le Popolari (40%) e le Bcc (48%) che per le Spa (22%): il risultato corrente è di conseguenza negativo per le Popolari (-17% dei ricavi) e le Bcc (-27%). Anche per effetto di un cost/income ratio (rapporto tra costi operativi e margine di intermediazione) più alto per Popolari (77%) e Bcc (79%) rispetto alle Spa (71%): i costi amministrativi (anche regolamentari e di compliance) incidono proporzionalmente di più per le piccole.

Il Texas ratio
Dei circa 198 miliardi di Npl netti, 98 miliardi fanno capo a 114 istituti con Texas ratio superiore al 100%. Il Texas ratio mette in rapporto Npl e patrimonio netto tangibile di una banca: indica la percentuale di Npl che è coperta dal patrimonio dell’istituto. “Gli istituti con Texas ratio maggiore spesano svalutazione crediti per 52% dei ricavi e segnano un risultato corrente negativo pari al 34% dei ricavi – scrive ancora Barbaresco – Forti concentrazioni di credito cattivo abbassano il capitale regolamentare”. man mano che il Texas ratio si abbassa diminuisce anche la svalutazione: per le 67 banche che hanno l’indicatore tra il 100% e il 75% gli 85 miliardi di Npl netti sono svalutati del 41%; per quelle tra il 75% e il 50% la svalutazione è del 35% e per quelle con un ratio ancora inferiore del 20%.

Cedere o no, questo è il problema
Ma liberarsi in fretta di questi Npl è davvero necessario? Sì secondo la Bce, perché l’aumento di questi crediti deteriorati ha un impatto negativo sul trasferimento del credito bancario all’economia; relazione che invece Banca d’Italia ritiene difficile da dimostrare. “Secondo la Banca d’Italia, il livello degli NPL di per sé non influenza la politica di erogazione del credito – scrive Barbaresco – Sono rilevanti fattori specifici, sia di domanda (stato di salute dell’impresa) sia di offerta (dimensione e capitale della banca). Forzare le banche a cedere i NPLs può essere controproducente, se ciò deteriora la loro dotazione di capitale (via perdite e adeguamento del valore di carico)”. Insomma si tratterebbe di un facile capro espiatorio, per spiegare la caduta del credito negli anni passati.
E se questo fosse vero, cedere in fretta e furia i crediti deteriorati vendendoli sul mercato (a prezzi da saldo) avrebbe un effetto controproducente sulle banche.

Abbreviare i tempi di recupero per poter vendere al prezzo giusto
“Secondo Banca d’Italia, il tasso di recupero delle sofferenze tra il 2006 e il 2015 è stato pari al 43%. Il tasso medio di recupero delle sofferenze gestite in house è stato pari al 47%, di quelle cedute a terzi al 23%”. Oltre venti punti di differenza, un salasso. “La bassa quotazione delle sofferenze cedute dipende dall’elevato tasso di sconto applicato (15%-25% secondo Bankitalia) che riflette la struttura del passivo dei veicoli specializzati (tutto Equity) e la loro avversione al rischio”. A parità di condizioni (ovvero essenzialmente il tempo di recupero) esiste uno scarto di 14 punti tra valore attuale per un investitore specializzato e quello della banca: ovvero se il valore di libro e 42, l’investitore comprerà a 21 e gestendo in house si recupererà a 35, nel giro di cinque anni. “Lo scarto si dimezza se l’investitore accetta una riduzione dal 15% all’8% del tasso interno di rendimento (IRR); mentre una riduzione da 5 anni a 2 anni dei tempi di recupero porta lo scarto a 3 punti con un Irr del 15%. Con tempi di recupero ridotti a due anni e un IRR dell’8%, si ha coincidenza tra la valutazione bancari e quella dell’investitore”. Quindi: l’abbreviamento dei tempi di recupero riduce la distanza tra soluzione in house e cessione, depotenziando l’effetto dei differenti IRR. Lavorare su questo potrebbe avere più senso e creare valore anziché continuare a distruggerlo.

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