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Non si può dire “no”: come la Turchia di Erdogan si prepara al referendum

No al referendum, la manifestazione di Berlino

Nel referendum di domenica 16 aprile, i cittadini turchi decideranno se confermare o meno gli emendamenti alla costituzione approvati dal Parlamento con i voti del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) e del Partito Nazionalista (MHP).

La riforma rappresenta l’obiettivo più ambizioso per il Presidente Recep Tayyip Erdoğan e sancirebbe la chiusura di un epoca – quella della Turchia plasmata da Mustafa Kemal Atatürk – e l’ingresso in una nuova era: la Turchia presidenziale ed autocratica di Erdoğan.

“Erdogan agisce come un leader determinato, generando potere dal supporto popolare: il suo obiettivo è quello di rimpiazzare Atatürk”

– Alon Ben-Mair, professore al CGA dell’Università di New York

Non si può dire “no”. Nel corso degli ultimi mesi il paese ha vissuto una campagna elettorale impari, fortemente sbilanciata a favore del “sì” alla riforma e marcata, inoltre, da una sistematica repressione del dissenso. Il timore è fondato. Dichiararsi un sostenitore del “no”, infatti, può portare alla perdita del lavoro o all’incarcerazione con l’accusa di “incitazione alla violenza contro i valori religiosi” o, nei casi più eclatanti, di “terrorismo“. Figure come quella del leader dell’ISIS al-Baghdadi, dei curdi del PKK – considerate un organizzazione terroristica – o dello stesso Fetullah Gülen, sono diventati gli “spauracchi” usati dalla propaganda per il “sì” per indicare a chi gioverebbe la sconfitta del governo al referendum.

“Non ci permettono di lavorare, non tramite mezzi illegali, ma puoi sentire la pressione ogni volta che esci per strada”

-Yasemin Bektas, movimento Le Donne Dicono NO!

Chi vota no, è “nemico dello stato”. “Se la riforma costituzionale non passasse”, sostiene  Burhanettin Duran, editorialista del Daily Sabah – giornale filo-governativo – “coloro che hanno interesse a danneggiare gli interessi nazionali, continuerebbero ad avere la possibilità di intromettersi nella vita politica turca e destabilizzare il paese”. Sulla stessa linea il vice-Primo Ministro e parlamentare dell’AKP Nurettin Canikli: “lo Stato Islamico sta conducendo una campagna per il “no” fra i suoi simpatizzanti in Turchia”. La vittoria del “no” diventerebbe – nella retorica pro-governativa – la vittoria dei “nemici dello stato” siano questi i curdi del PKK, i Jihadisti dell’ISIS, i militanti del movimento Feto di Fetullah Gulen o i partiti del campo del “no”.

Il campo del “no”. Per il “no” si sono schierati i Repubblicani del CHP, il Partito Democratico dei Popoli (HDP) e i quadri dissidenti dei Nazionalisti del MHP, la cui leadership si è invece schierata a favore della riforma. Sempre per il “no” si è schierato gran parte del mondo della cultura. Nonostante la trasversalità del movimento – che si ispira alle vicende del Cile del 1988, le quali portarono alla fine della dittatura – la campagna ha stentato a decollare, ostacolata di continuo dalle pressioni, come segnalate, dei media pro-governativi, dai provvedimenti dello stesso governo e dalle aggressioni – verbali e fisiche – perpetrate dalle frange più estreme del campo del “sì”. Mentre il CHP e la sua leadership sono accusati – sempre da Canikli – di “essere guidati dai servizi segreti tedeschi”, molto peggio è andata all’HDP, partito democratico molto forte nelle aree a maggioranza curda del paese.

“Il 16 aprile sarà la risposta al 15 luglio 2016 (data del fallito colpo di stato): coloro che diranno “no” staranno dalla parte [dei golpisti] del 15 luglio”

– Recep Tayyip Erdoğan, riguardo il “no” al referendum

Il caso dell’HDP e dei Curdi. Quando ancora la riforma si trovava all’inizio del suo processo di approvazione in Parlamento, il leader dell’HDP, il curdo Selahattin Demirtaş, è stato arrestato durante i lavori parlamentari con l’accusa di “favoreggiamento al terrorismo del PKK” e rischia una condanna a 142 anni di prigione. Oltre a lui, sono stati incarcerati 10 parlamentari, 80 sindaci e 3000 tesserati dell’HDP. Questi arresti hanno, nei fatti, cancellato dalla campagna referendaria il terzo partito del paese.

L’obiettivo? Costringere i Curdi – fra i più convinti sostenitori del “no” – a votare per il governo. O così o il rischio di un escalation militare in quello che è il “conflitto civile latente” fra Ankara ed il Kurdistan.

Nessuna previsione possibile Il risultato del referendum è difficile da prevedere. Da una parte c’è il timore che Erdoğan non sia disposto ad accettare un voto negativo e costringa alla ripetizione del referendum ad oltranza, come avvenuto per le elezioni del 2013. Dall’altra parte c’è l’ancora elevato numero degli indecisi, stimati fra il 25 ed il 30% degli aventi diritto e presenti anche nel campo dell’AKP. Come riportato dal sito al-Monitor, questa “indecisione” è spesso legata al timore di buona parte dell’elettorato medio di essere “bollati” come “nemici dello stato”.

Il “non so” contro il referendum. Il termine “hayır” – “no” in turco – è un arma politica nella Turchia odierna che denota l’avversione al governo e che può portare – in casi più o meno noti – anche alla perdita del proprio lavoro. Per questo – quando si è intervistati dai media – è diventato normale rispondere alle domande sulla propria inclinazione di voto con il termine “hayırlisi”, parola derivata che significa, appunto, “non so”.

“Questa demonizzazione dell’altro è qualcosa che ci poteremo dietro nel futuro: che vinca il “sì” o il “no”, saremo costretti a portarne il peso”

– Bekir Ağırdır, direttore dell’istituto di sondaggi Konda

Secondo Bekir Ağırdır, direttore dell’istituto di sondaggi Konda – uno dei più affidabili in Turchia – il risultato finale sarebbe ancora in bilico e questo nonostante le pesanti pressioni politiche contro il campo del “no”.

In caso di fallimento – e vista la retorica messa in campo – Erdoğan accetterà il risultato? Questo è il vero quesito della Turchia e in questo caso un “no” fa veramente paura.

 

Estratto dall’articolo dello stesso autore su: il Caffè e l’Opinione

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