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Cosa ha detto e fatto McMaster in Afghanistan mandato da Trump

Il generale americano Herbert R McMaster ha passato la Pasqua in Afghanistan. McMaster è il capo del Consiglio di Sicurezza nazionale, l’organo che indirizza molte delle policy della Casa Bianca e che è diventato nelle ultime settimane il campo di battaglia tra gli uomini che rappresentano i due volti del potere, quello destrutturante e quello tradizionale, dell’amministrazione Trump. In questo momento il secondo (più adatto alla fase presidenziale) sta coprendo con una pennellata normalizzante il primo (facendolo sembrare un richiamo elettorale, anche se non del tutto abbandonato).

La presenza di McMaster in Afghanistan è uno dei simboli o sintomi di quel che sta succedendo – il generale è noto per avere una linea chiara sul ruolo dei comandanti: non devono mentire ai politici, devono essere chiari e crudi e far valere le proprie competenze, sostiene nella sua tesi di dottorato all’Università della North Carolina, diventata testo di studio per i futuri ufficiali nelle accademie americane. Il presidente Donald Trump ha inviato il suo uomo del momento a dare sostegno a truppe e governo locale in uno scenario caldissimo dove la NATO è impegnata nella più grossa operazione della sua storia. Un’operazione lanciata nel 2001, quando gli Stati Uniti chiesero l’intervento collegiale dell’alleanza per ricostruire le strutture statali e stanare i qaedisti, protetti dai Talebani, responsabili dei terribili attacchi del 9/11. Il regime change innescato dalla coalizione atlantica ha portato alla destituzione della dittatura talebana, tornati ad essere ribelli e forza di contrasto nazionalista/jihadista al potere centrale.

Non solo i soldati Nato sono ancora impegnati a combattere i ribelli storicamente guidati dal defunto Mullah Omar, ma la radicazione delle posizioni più integraliste ha ceduto alle lusinghe del Califfo, che ha approfittato degli smottamenti interni al mondo del jihad per creare in Afghanistan un proprio hotspot. È proprio per combattere i baghdadisti afghani e per mandare un segnale forte alla loro espansione (per il momento in meno di mille, dicono le stime delle Intelligence) che i comandanti americani hanno deciso di usare la super-bomba Moab, un ordigno presente in poco più di una dozzina di pezzi nell’arsenale americano, il cui impiego è tanto una necessità tattica ma anche un messaggio politico.

Gli alleati si possono sentire rassicurati dal rinnovato impegno americano — un po’ più lontano dallo pseudo isolazionismo annunciato in campagna elettorale. I nemici subiscono una frustata psicologica. Ma c’è di più a leggere tra le fitte righe dei messaggi impliciti. Domenica McMaster è stato intervistato da “This Week” della ABC, e appena dopo aver portato la presenza americana nel luogo in cui la Nato ha messo in opera il proprio più grosso impegno (e che può rappresentare, tirandolo con forza, il senso del nuovo corso anti-terror dell’Alleanza), ha lanciato un monito contro la Corea del Nord. “Questo comportamento non può continuare, valutiamo ogni opzione” ha detto McMaster poche ore dopo che il Pentagono e gli alleati regionali avevano confermato che Pyongyang aveva effettuato un nuovo, stavolta fallito, test balistico su un vettore a medio raggio, nonostante le continue minacce americane dei giorni precedenti.

La Moab usata in Afghanistan è stata considerata anche un input per la Corea del Nord, non tanto per il suo uso diretto (perché i C130 che l’hanno sganciata potrebbero essere facile bersaglio della contraerea di Kim-Jong-un), ma perché altri ordigni simili, per esempio la GBU-57A/B Massive Ordnance Penetrator (MOP, trasportati dai bombardieri invisibili B-2), potrebbero essere una delle opzioni di attacco che il Pentagono ha già proposto alla Casa Bianca e di cui McMaster non ha voluto parlare con i giornalisti.

Segnali che si inseguono, dove anche la Corea del Nord — preoccupazione più importante dei talebani afghani fosse altro per la potenza di fuoco a disposizione del regime di Pyongyang e per la vicinanza di vari paesi alleati a tiro di quelle armi (per questo un altro simbolo del potere presidenziale, il VP Mike Pence, ha passato la Pasqua a Seul) — diventa elemento di collegamento che Trump usa per veicolare un messaggio a Pechino. I cinesi sono il collegamento che permette alla satrapia del Nord di restare in piedi, ma le pressioni esercitate dalla Casa Bianca hanno almeno in parte smosso la Cina, che la scorsa settimana ha tagliato l’invio di carbone che serve per alimentare le centrali che producono la corrente di Kim. Il piano americano è usare Pyongyang come un test per vedere fin dove, come, quando e perché, fidarsi di Pechino — stiamo lavorando “con alleati e leadership cinese”, dice McMaster, su cosa fare con il Nord. In piedi c’è una guerra commerciale da 310 miliardi di dollari di squilibrio import/export a favore della Cina, momentaneamente accantonato. Parte importante di una situazione generale che sta diventando difficile da sostenere per l’America, e che coinvolge anche quegli alleati Nato (dove i principali paesi godono del surplus commerciale con gli americani). Domenica, Trump ha emesso sentenza su Twitter, spiegando quel che sta accadendo: “Vedremo che succederà”. (I cinesi, tra l’altro, hanno un problema terroristico interno nello Xinjiang, regione che si allunga fino al Pakistan, Kyrgyzstan, Tagikistan, area interessata dai passaggi di combattenti jihadisti).

 (Foto: Twitter, Official Account of the Office of the President of Afghanistan, HR McMaster e Ashraf Ghani in Afghanistan)

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