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Aumentiamo l’Iva e riduciamo il cuneo fiscale?

Pier Carlo Padoan cuneo fiscale

Purtroppo la tendenza in atto è quella di volere tutto e di essere, nello stesso, contrari a tutto. Qualche scelta, tuttavia, dovrebbe essere compiuta nel campo della politica fiscale. Il DEF, nella sua vaghezza, asseconda l’incapacità del Paese ad intraprendere una strategia compiuta e a non accontentarsi soltanto delle mezze misure.

È aperto un dibattito sull’opportunità, sostenuta dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan (Schioppan?), di aumentare l’Iva allo scopo di poter ridurre l’Irpef o addirittura il cuneo fiscale e contributivo. Credo che sia sbagliato scartare questa ipotesi senza adeguate considerazioni. I critici di tale eventualità si fanno scudo dell’aumento dei prezzi e quindi dell’inflazione, nonché degli effetti sui consumi, che ne deriverebbero. È sicuramente vero, ma lo è altrettanto considerare che sono almeno tre anni che il governo tenta di rilanciare l’economia attraverso i consumi (il bonus di 80 euro mensili, l’abolizione dell’imposta sulla prima casa e qualche altra mancia). Inutilmente, perché le famiglie non spendono (preferiscono risparmiare) nel contesto di una situazione economica incerta.

Nel suo 50° Rapporto sulla situazione sociale del Paese il Censis ha rilevato che “rispetto al 2007, dall’inizio della crisi gli italiani hanno accumulato un incremento di cash pari a 114,3 miliardi di euro, ovvero superiore al valore del Pil di un Paese intero come l’Ungheria, mentre la liquidità totale di cui dispongono (818,4 miliardi di euro nel secondo trimestre 2016) è pari al valore di un’economia che si collocherebbe al quinto posto nella graduatoria del Pil dei Paesi UE post-Brexit, dopo la Germania, la Francia, la stessa Italia e la Spagna”.

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Ecco perché non sarebbe azzardato cambiare strategia. Un taglio importante del cuneo fiscale e contributivo (la differenza tra costo del lavoro e retribuzione netta) favorirebbe la competitività delle nostre imprese (soprattutto di quelle che esportano a cui un aumento dell’Iva non creerebbe alcun problema), le retribuzioni e l’occupazione, sia per il rafforzamento della crescita economica sia per la riduzione del costo del lavoro. Certo ci sarebbe il problema di quei consumatori finali che non possono compensare l’aggravio dei prezzi con i benefici della riduzione del cuneo. È il solito piagnisteo dei poveri pensionati, che si ripete inesorabile nonostante che su tale platea siano stati riversate miglioramenti per 7 miliardi in un triennio.

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Non è detto poi che si intervenga necessariamente sull’aliquota più elevata del 22%, effettivamente superiore di qualche punto rispetto a quelle dei maggiori Paesi europei. Non si dimentichi, però, che da noi le aliquote sono tre. Oltre a quella maggiore già ricordata le altre due sono l’aliquota minima del 4% (ovunque nella Ue è pari al 5%) e quella intermedia del 10% (che in altri Paesi non è prevista). Sarebbe possibile, quindi, modulare l’intervento sull’Iva, in cambio di un’operazione – anch’essa selettiva – sul cuneo fiscale e contributivo, che, come sappiamo è tra i più elevati nei Paesi Ocse.

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Il fatto è che per mandare un segnale forte occorrerebbe un taglio di almeno un punto di Pil ovvero di una quindicina di miliardi. Il governo Prodi, nel 2006, attuò un taglio del cuneo fiscale nella misura di 5 miliardi senza che le imprese – pur in una condizione economica migliore dell’attuale – ne avessero un particolare vantaggio.

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