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La Brexit non si diverte

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Il congresso si diverte (Der Kongreß tanzt) è un film del lontano 1931 diretto da Erik Charell che ebbe un certo successo all’epoca tanto che nel 1955 ne venne fatto un remake. È poco più di un’operetta che racconta gli spassi di diplomatici e di teste coronate al Congresso di Vienna (1814-15) dove ci si spartiva, dopo la battaglia di Waterloo, quello che era stato l’effimero impero napoleonico.

Non so se un giorno qualche produttore e qualche regista penserà di realizzare un film sulla fine del relativamente breve (nella storia del Vecchio continente) matrimonio tra la Gran Bretagna ed il resto di quella che si chiama ancora Unione europea (Ue). Se ciò mai avverrà, il film, o la telenovela, non verrà certamente intitolato La Brexit si diverte. La vicenda si svolgerà, in gran misura nella calvinista Ginevra (sede dell’Organizzazione Internazionale del Commercio, Omc) e nella piovigginosa e triste Bruxelles (sede di gran parte delle istituzioni europee).

In primo luogo, tanto la posizione della Gran Bretagna quanto quella dell’Unione europea nell’ambito dell’Omc sono quanto meno anomale e ambigue. La Commissione europea ha in base al Trattato di Roma, le cui ambizioni si limitavano alla creazione di un mercato comune, il compito di negoziare i trattati commerciali internazionali dato che all’epoca per l’Europa dei Sei tali trattati riguardavano essenzialmente la tariffa doganale comune, ed i pertinenti contingenti, nonché la politica agricola comune (le cui linee principali vennero definite nel 1963). In effetti, si tratta di un espediente per facilitare il lavoro commerciale internazionale. Non è un compito, però, che la Commissione europea (Ce) può esercitare in autonomia, ma sulla base di direttive specifiche degli Stati membri (oggi 28 con la Gran Bratagna o 27 senza la Gran Bretagna). La Ce ha, però, sempre esercitato questo diritto come grimaldello per essere considerata come uno Stato (o un super Stato) al pari degli altri Stati membri dell’Omc. Tale privilegio le è stato sinora negato; è ultimo firmatario del Trattato istitutivo dell’Omc, non ha diritto di voto, non paga i contributi all’organizzazione.

Ci sono già frizioni tra la Ce (che il 3 maggio ha chiesto formalmente al Consiglio europeo  dell’Ue l’autorizzazione a negoziare in nome e per conto dell’intera Unione) e gli Stati membri dell’Ue, su come condurre la trattativa, ad esempio sulla lingua. Da quando la Gran Bretagna è entrata nell’Ue nel 1973, l’inglese ha di fatto soppiantato il francese come lingua di lavoro dell’eurocrazia ed anche dei negoziati commerciali. Nelle trattativa intra-Ue, i diplomatici britannici si sono dimostrati abilissimi e molto preparati. Per quanto riguarda la Brexit, il capo negoziatore è Michel Barnier che agirà per conto e sotto il controllo dei 27 Paesi che restano e che hanno approvato il mandato di negoziato. Barnier non fa parte della Ce, è stato personalmente designato da Juncker con il consenso dei 27, ma si avvarrà dell’indispensabile sostegno tecnico dei servizi della Ce. È solo un caso che l’attuale presidente della Ce non sia inglese: se lo fosse, il corto circuito Ue-Brexit sarebbe stato visibile anche per i non addetti ai lavori. Nei corridoi di Bruxelles, si spiffera che il francese potrebbe tornare ad essere la lingua di riferimento (almeno nel negoziato Brexit), se non altro per evitare di dare un vantaggio comparato alla diplomazia britannica. Durante il mandato di Romano Prodi, che, nella veste di presidente della Ce, non suscitava simpatie presso tutti i componenti della Ce, durante riunioni formali, sovente alcuni commissari, utilizzavano il francese, lingua che Prodi non mastica bene.

Il Parlamento europeo sarà informato e alla fine dovrà approvare o respingere il risultato. Ovviamente tutti i Paesi continueranno ad avere rapporti diretti con la Gran Bretagna, ma tutti hanno unanimemente respinto la proposta di negoziati bilaterali paralleli. Il futuro accordo commerciale sarà negoziato secondo le regole abituali, ma solo quando le condizioni di Brexit saranno state definite. Fino al momento dell’uscita finale, la Gran Bretagna continua a far parte dell’Unione e anche delle sue istituzioni; fino a quel momento sarà sottoposta a tutti gli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Ue e non potrà negoziare accordi commerciali con altri Paesi. Quindi, per il momento la Commissione continua a negoziare a Ginevra per conto di tutti. Gli stessi dirigenti di lungo corso della Ce ammettono che, almeno in parte, si tratta di “un pasticcio”.

Infine, da un lato, sino al completamento della trattativa, la Ce rappresenta tutti gli Stati e tutti i popoli, anche quello della Gran Bretagna, da un altro, bisognerà convincere i 163 membri della Omc (dalla Cina al Canada, dalla Thailandia alla Tunisia, dall’Uruguay all’India) ad appassionarsi al sogno europeo e a studiarsi le procedure Ue e i meccanismi Ue del processo Brexit. Come ricorda un Ambasciatore italiano che ha avuto un ruolo non secondario nei negoziati commerciali internazionali, i britannici sono sempre stati attivissimi, a Ginevra come a Bruxelles, pronti a rovesciare il tavolo, ma anche a proposte costruttive e determinanti per la posizione comune. Ora nel Wto vogliono riportarsi a casa tutta la loro “sovranità” nell’Omc Avranno il problema di condurre al contempo due negoziati, uno interno e uno esterno. Dovranno fare acrobazie, e troveranno molti ostacoli dentro e fuori.

È su questo scenario di fondo che si apre il negoziato. Peter Ungphalorn, a lungo alto dirigente dell’Omc, ha scritto un saggio in cui sostiene che la per la Gran Bretagna non sarà facile ritrovare il ruolo che aveva prima nel Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) e poi nell’Omc, ma con il supporto del Commonwealth e forse anche degli Stati Uniti, ci riuscirà. A spese della Ce e forse della stessa Ue.

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