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Donald Trump, Marine Le Pen e le derive intellettualoidi

Lingotto, 5 stelle, molestie

Non voterei mai una forza “populista”, probabilmente, ma mi chiedo se sia giusto usare categorie novecentesche per giudicarle. E quindi (le due cose vanno quasi sempre a braccetto) per delegittimarle così contribuire all’avvelenamento del dibattito pubblico. Che è un po’ la strategia utilizzata dagli opinion maker del mainstream culturale.

Prendiamo il caso di Marine Le Pen: le ricette che propone per la Francia sono a mio avviso errate perché riproporrebbero, in miscela nazionalista, quel mix di protezionismo e socialismo che potrebbe essere esiziale per le nostre economie già fin troppo ingessate. Ma da qui a urlare alla xenofobia e al razzismo, alla “deriva fascista”, come fa ad esempio Bernard Henry Lévy, mi sembra che ce ne corra. È un ragionare con vecchie categorie, appunto, e soprattutto un non voler far credito a una evoluzione che c’è stata nei fatti e che a ogni buon democratico dovrebbe solo far piacere.

Non è plausibile dire che, con Marine all’Eliseo, la libertà scomparirebbe in Francia. Ma che la libertà scompaia nelle nostre società, anche per le vie più insospettabili, è ovviamente sempre possibile: non bisogna abbassare mai la guardia, ma bisogna cercare a 360 gradi e non far scattare automatismi mentali che la realtà smentirà spiazzandoci.

Ancora più evidente è questa mia lettura in merito alle questioni relative alla Brexit e a Trump. Stamattina sul Corriere della sera c’è un fondo di Massimo Gaggi a commento dei positivi dati registrati dall’economia americana che mi sembra addirittura da manuale in tal senso. Prima perché delegittima l’avversario, cioè in concreto i milioni di cittadini dell’America, mezzo Paese, che ha votato e apprezza Trump; poi perché, preso atto della realtà, spiazzante per chi aveva preventivato catastrofi, si fa previsore di foriere sventure a a lunga distanza.

Nel primo caso, nella delegittimazione si legge quasi un disprezzo antropologico, degno della Maria Antonietta che invitava il popolo senza pane a mangiare brioche. Un popolo bue, cioè conformista, quello di chi ama Trump, anche se Gaggi dimentica che al conformismo delle masse spesso si associa nelle nostre società il conformismo di studiosi e interpreti. E un popolo ignorante e fanatico semplicemente disposto a essere preso per i fondelli: “Trump – si legge nell’articolo – gioisce perché il suo elettorato accetta con fedeltà tribale il suo ennesimo capovolgimento del modo di leggere la realtà”. Nel secondo caso, l’inviato del Corriere dà invece questa spiegazioni degli inattesi (da lui) “successi” di Trump: “Gli impegni di deregulation, minori tasse, vincoli ambientali, alla lunga – scrive – costeranno cari all’America in termini di debito pubblico e inquinamento, ma nell’immediato generano aspettative di crescita degli investimenti e della domanda delle famiglie”. Al che viene voglia di ribattere: e chi mai può prevedere il futuro, frutto delle nostre azioni inintenzionali e della nostra libertà? E fra l’altro, non era stato proprio Keynes a dire, ammetto con una buona dose di cinismo, che nel lontano futuro saremo tutti morti?

Sia ben chiaro: io, se fossi stato cittadino americano, stando al programma protezionista e isolazionista di Trump, mi sarei “turato il naso” e avrei votato Hillary. Né, ora che Trump ha attenuato quel programma nell’azione concreta, credo che sia quella sua la via giusta per l’America. Ma fra quattro o otto anni, quando lo diranno gli elettori, Trump non ci sarà più e gli Americani avranno buon diritto di sperimentare altre strade. Nel frattempo il Paese e il mondo non saranno certo crollati, o comunque non lo saranno per intenzionali politiche trumpiane. Quello che qui però si vuol criticare è che, fallita la strategia 1, cioè la previsione del crollo dei mercati causa Brexit e Trump, ora gli opinionisti adottano la strategia 2 e, senza fare autocritica, rimandano al futuro le sventure che oggi non ci sono state.

In sostanza, la democrazia è sicuramente fatta di un costante, e spesso duro, dialogo fra interessi, retoriche e idee diverse. Le “menzogne” degli uni sono state sempre combattute con le “verità” degli altri. Quello che però dovrebbe cambiare, se non vogliamo restare prigionieri di quella militarizzazione delle coscienze che fu propria della politica di massa del Novecento, è il nostro atteggiamento verso i diversamente pensanti e opinanti. Mi sembra invece di nuovo in auge la volontà di molti, nel nostro mondo, di sottrarsi al dialogo stabilendo a priori, forse anche inconsciamente, qual è la verità e chi è degno di partecipare al dibattito.

 

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