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Come si sono divisi al Fatto Quotidiano Marco Travaglio e Antonio Padellaro su Emmanuel Macron

Antonio Padellaro e Marco Travaglio

Dopo essersi unito la mattina ai compagni -ora anche lui li chiama così- cantando l’inno di Mameli in apertura dell’assemblea nazionale del Pd, in cui è stato proclamato per la seconda volta segretario del maggio partito italiano, Matteo Renzi si è unito la sera davanti alla televisione agli elettori francesi del nuovo presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, cantando la Marsigliese.

Ecco, questa può ben essere indicata come la plastica rappresentazione della domenica assai particolare che ha unito, sia pure su piani diversi, due giovani protagonisti della politica europea.

Macron è ora alla testa di una Repubblica che si propone, specie dopo la cosiddetta Brexit, di ridisegnare il rapporto pur privilegiato tenuto sino all’altro ieri con la Germania nell’Unione Europea. Renzi è di nuovo alla testa di un partito che si propone di rimanere il primo in Italia, anche dopo la scissione subita a sinistra dagli uomini più legati al loro passato comunista, ed è interessato quanto Macron a cambiare lo spartito europeo. Cioè, a partecipare ancora all’Europa per cambiarla, non per uscirne alla prima occasione: con un referendum dove esso è costituzionalmente possibile, com’è avvenuto in Gran Bretagna, in qualche altro modo da inventarsi dove lo strumento referendario è impraticabile per queste decisioni, come in Italia.

Qui smaniano di uscire dall’Europa non solo i leghisti di Matteo Salvini e i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che encomiabilmente -dal loro punto di vista- lo gridano più forte, ma anche i grillini. Che si sono fatti più reticenti e astuti su questo terreno negli ultimi tempi ma restano, con il loro modo di essere, di muoversi, di pensare, antitetici all’Europa quanto e forse addirittura più ancora della destra. Di una destra, terrestre o stellare, che su certi temi, nella intercettazione e nella coltivazione di certi disagi sociali e politici, sa sovrapporsi alla sinistra, come ha appena dimostrato in Francia la perdente Marine Le Pen, mettendo in difficoltà il concorrente nel primo turno Jean Luis Mélenchon. E come hanno fatto in Italia i vari Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, in ordine non alfabetico ma di reciproca forza attrattiva, considerando una “costola della sinistra” prima la Lega di Umberto Bossi e poi il Movimento delle 5 stelle di Beppe Grillo.

Non è forse vero che all’inizio di questa tormentata diciassettesima legislatura l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, anche a costo di perdere prima l’incarico di presidente del Consiglio e poi anche la guida del partito, corteggiò i grillini perché gli dessero un aiutino a formare e far “decollare” in Parlamento un governo velleitariamente “di minoranza e di combattimento”, pur di non fargli sporcare le mani trattando le cosiddette larghe intese con quel mostro politico che lui considerava Silvio Berlusconi? Certo che è vero. E’ storia, ormai, non più cronaca. Una storia che nel Pd, dopo le prossime elezioni, avrebbe ritentato non dico Andrea Orlando, ma di sicuro Michele Emiliano se gli fosse capitato di vincere il congresso al posto di Renzi.

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La somiglianza politica, se non si vuole spingersi a parlare di gemellaggio, fra i quasi coetanei Macron e Renzi, di 39 e 42 anni, nella concezione dell’Europa e della sinistra davvero riformista, in nome della quale il primo è uscito dal partito socialista per creare un proprio movimento e il secondo ha trasformato il Pd sino a farne uscire, quasi disperati, i Bersani e D’Alema, è contestata anche da osservatori che non possono essere certamente scambiati, per la loro storia professionale e per la conoscenza che ne ho personalmente, per massimalisti o per colleghi con la puzza sotto al naso.

Mi riferisco, in particolare, all’amico Stefano Folli. Che su Repubblica ha appena scritto che “Renzi non è europeista come Macron”, anche se, a dire il vero, il nuovo presidente della Repubblica francese ha mosso certe critiche alla gestione dell’Unione Europea, praticata invece dal suo superiore di allora, François Hollande, non prima ma dopo Renzi, allora presidente del Consiglio italiano.

Il fatto è che la sintonia fra i due leader europei ha spiazzato e diviso anche i giornali, e non solo i partiti o, più in generale, la politica.

Folli ha dubitato del tasso europeista di Renzi il giorno dopo che sullo stesso giornale il fondatore Eugenio Scalfari ne aveva scritto, proprio in un’ottica europeistica, come dell’”unico” – ripeto, unico – leader rimasto ormai in Italia, almeno in condizioni di agibilità politica, se non si volesse ricorrere alla riserva della Repubblica. Dove Scalfari aveva collocato in altre occasioni Romano Prodi e Walter Veltroni: per un certo tempo, in verità, anche Enrico Letta, che evidentemente Barpapà si è ormai rassegnato a vedere solo come un professore emigrato a Parigi.

Nel Fatto Quotidiano non sarà sfuggita ai più attenti lettori e osservatori la diversa, se non opposta, posizione assunta verso Macron dal fondatore Antonio Padellaro e dal direttore Marco Travaglio. Che, entrambi ospiti del salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7, sia pure in serate diverse, hanno detto che, se avessero avuto diritto di voto in Francia l’uno avrebbe votato senza esitazione per Macron e l’altro si sarebbe invece astenuto considerando entrambi, Macron e Marine Le Pen, candidati indigeribili.

Padellaro si è poi spinto anche più avanti ammonendo i grillini, in una risposta ad un lettore del quotidiano, a non fare la fine dei lepenisti, capaci di prendere molti voti ma non di vincere le elezioni perché determinano un fronte del rifiuto, nei loro riguardi, invincibile.

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Sui risultati delle elezioni presidenziali francesi, pur al netto di ciò che potrà accadere il mese prossimo nelle elezioni per il Parlamento, dovrebbe decidersi a fare una riflessione seria in Italia soprattutto Berlusconi. Che non può limitarsi a riconoscersi nella raccomandazione appena ribadita dal direttore del Giornale di famiglia a Salvini e alla Meloni a rendersi conto che sulle loro posizioni estreme un nuovo centrodestra non potrebbe vincere, per cui sarebbe l’ora che si rassegnassero a fare solo da supporto, da spinta, da sollecitazione, come preferite, a Forza Italia e al suo leader inamovibile.

Anche Berlusconi dovrebbe rassegnarsi a qualcosa. In particolare, a considerare la realtà per quella che è, e non per quella che lui vorrebbe che fosse. Salvini e la Meloni non sono tipi che si arrendono alla sconfitta della loro icona Marine Le Pen e rinunciano alla presunzione di poter fare meglio di lei in Italia, solo se Berlusconi li lasciasse in pace.

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