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La Siria di Assad, il lager di Saydnaya e il nuovo olocausto

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Quando ho letto i primi dispacci sulla probabile modifica di un edificio nel lager siriano di Saydnaya per farne un forno crematorio tramite il quale, insieme a fosse comuni, si potrebbero essere fatti sparire decine migliaia di corpi di detenuti dal 2015 a oggi, sono inorridito. Le fotografie ottenute dal Pentagono lasceranno tutti a dir poco inquieti.

E così poco dopo mi sono detto che l’inviato dell’Onu, che ancora pochi giorni fa ci diceva che ad Astana un accordo di pace sulla Siria è possibile, ora dovrebbe dire che un accordo sull’invio senza indugi e senza limitazioni di sorta di inviati dell’Onu a Saydnaya sia un’urgenza assoluta e indifferibile. Dobbiamo sapere tutto e subito, perché si è detto “mai più”.

Poi però ho pensato che in realtà già sappiamo tutto. Lo sappiamo da prima della modifica di Saydnaya, da quando è risultato, incontrovertibilmente, che Aloise Brunner, gerarca nazista fuggito in Siria, ha collaborato a “idearne” gli apparati di sicurezza. Lo sappiamo da quando papa Francesco ha scritto, nel dicembre 2016, a Bashar al Assad, chiedendo il rispetto del diritto umanitario internazionale e condannando il terrorismo “da qualsiasi parte provenga”.

Lo sappiamo da quando un vocabolo che si usa esclusivamente per descrivere quanto accadde nei campi di sterminio nazisti durante la Seconda guerra mondiale è stato usato per quanto accade in Siria: è un vocabolo che così ha acquisito una valenza irripetibile: “Olocausto”.

Mai si può capire un vocabolo escludendolo dal suo contesto, tanto più questa regola è d’obbligo se si tratta di parlare di “olocausto”. E allora partiamo dal contesto. Nel nostro caso la descrizione più efficace  del contesto l’ha fornita il padre dell’illuminismo arabo, docente a Princeton, studioso di fama mondiale di Kant e autore del celebrato Critica del pensiero religioso, il siriano Sadiq al-Azm. Nel corso di una conferenza a Vienna ha spiegato che, quando nel 2011 è cominciata la sollevazione non violenta del popolo siriano contro il regime di Bashar al-Assad, i servizi di sicurezza fecero ricorso all’“Opzione Tradizionale”: assassinii mirati, detenzioni arbitrarie, tortura intimidatrice.

Il meccanismo, pur collaudato nei decenni, non ha funzionato. Anzi, ad Homs il movimento civile ha trasformato la Piazza dell’Orologio in una Piazza Tahrir siriana. È stato allora che il regime ha scelto l’“Opzione Pinochet”, con gli stadi, le scuole, gli edifici pubblici trasformati in luoghi di tortura e detenzione di massa. Ma anche l’“Opzione Pinochet” non si è dimostrata sufficiente ad avere ragione della determinazione popolare.

Ecco allora che è stata messa in atto l’“Opzione Sansone”: e così intere città sono state abbattute sulle teste dei loro abitanti. Questa scelta, all’attenzione del regime da decenni, è stata compiuta per via di un convincimento: “Il tempo di metterla in atto è arrivato”. La natura genocida del regime, secondo al Azm, si è dimostrata in questa fase con l’uso di armi chimiche e dei famigerati barili bomba. Ecco perché giovedì 16 dicembre 2016, dopo che i sopravvissuti dei quartieri orientali di Aleppo, asserragliati tra le macerie, avevano alzato bandiera bianca, Lucy Aharish, giornalista di etnia araba e di religione musulmana, conduttrice del Canale 2 della televisione israeliana, è apparsa sugli schermi per dire: “Proprio adesso ad Aleppo, in Siria, a sole 8 ore di macchina dal Tel Aviv, si sta consumando un genocidio. Ascoltatemi, lasciatemi essere più precisa. È un olocausto; sì, è un olocausto. Magari non vogliamo sentirlo e non vogliamo affrontarlo, dato che accade nel XXI secolo, nell’era dei social media, nel mondo dove l’informazione può prendere forma nella tua mano, in un mondo dove puoi vedere e sentire in tempo reale le vittime e le loro storie di orrore. In questo mondo noi non stiamo facendo niente mentre  bambini vengono massacrati ogni singola ora. Non chiedetemi chi ha ragione o chi si sbaglia, chi sono i buoni o chi sono i cattivi, perché nessuno lo sa. E francamente non importa molto. Quello che importa è ciò che sta avvenendo proprio adesso davanti ai nostri occhi. E nessuno in Francia o in Gran Bretagna o in Germania o in America sta facendo qualcosa per fermarlo. Chi sta manifestando nelle strade per gli uomini e le donne della Siria? Chi sta urlando per i bambini? Nessuno. L’Onu sta tenendo riunioni del Consiglio di Sicurezza e si asciugano le lacrime quando vedono l’immagine di un padre che abbraccia il corpo della sua piccola figlia. C’è una parola per questo: ipocrisia. Io sono un’araba, una musulmana, una cittadina dello Stato di Israele, ma sono anche una cittadina del mondo e mi vergogno. Mi vergogno come essere umano che ha scelto leader incapaci di sostenere le loro condanne ed essere decisi nelle loro azioni. Io mi vergogno che il mondo arabo sia preso in ostaggio da terroristi e assassini e che noi non facciamo niente. Io mi vergogno che la pacifica maggioranza dell’umanità sia irrilevante ancora una volta. Dobbiamo ricordare? Armenia, Bosnia, Darfur, Rwanda, la seconda guerra mondiale? No, non dobbiamo. Albert Einstein disse: il mondo non sarà distrutto da quelli che fanno il male, ma da chi guarda senza far niente”.

Qualcuno potrebbe pensare a una voce troppo emotiva, vista la giovane età della giornalista. Ma certamente non è un ragazzo il rabbino capo sefardita di Israele, Yitzhak Yosef, che a un incontro interreligioso con dotti musulmani palestinesi non ha esitato a usare l’espressione “piccolo olocausto”, implorando il suo popolo di non tacere.

E noi, cosa dovremmo fare noi? Si può negoziare la “pace” mentre a Saydnaya…?

 

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