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La seconda guerra del football targata Arabia Saudita

malgieri, francia, marine le pen

Qualche giorno fa si è disputata ad Adelaide la partita di calcio Australia-Arabia Saudita valevole per la qualificazione ai Mondiali che si terranno in Russia l’anno prossimo. L’accordo tra le federazioni asiatico-oceaniche prevedeva che l’incontro si aprisse con un minuto di silenzio in onore delle vittime dell’attentato londinese nel quale hanno perso la vita sette persone e molte altre sono state ferite.

Mentre i giocatori australiani si disponevano, insieme con gli arbitri, al centro del campo e lo stadio ammutoliva, gli atleti sauditi prendevano a saltellare, a palleggiare a chiacchierare disinteressandosi provocatoriamente del lutto e della commemorazione insomma. Un oltraggio in piena regola “giustificato” a posteriori dai responsabili, con la risibile e vile scusa che manifestazioni del genere non appartengono alla tradizione ed alla cultura del loro Paese.

Non sappiamo quali siano, nella considerazione della fattispecie, gli usi ed i costumi ai quali i sauditi si attengono; ma ricordiamo che fin dalla più remota antichità, presso tutti i popoli, perfino quelli meno civilizzati, il culto della morte connesso con la sepoltura è stato praticato secondo stili e modalità diverse, e quasi mai, se non in casi isolati, mai l’oltraggio neppure contro il nemico onorevolmente caduto è stato praticato.

L’inciviltà dei comportamenti che riscuote particolare successo nel mondo del calcio purtroppo è stata elevata a modello da chi da un lato finge di condividere un’etica universale, soprattutto in campo sportivo, e dall’altro si rintana nella cupa caverna dell’odio offrendo ai suoi sodali, mai pubblicamente condannati che praticano lo sgozzamento e lo stragismo, una solidarietà di fatto della quale il mondo libero dovrebbe tenere conto.

Non sappiamo se il Regno saudita, beneficiario di una fornitura d’armi da parte degli Stati Uniti d’America per diverse centinaia di miliardi di dollari, siglata dal presidente Trump qualche settimana fa, dia o meno il proprio appoggio (ed in che modo) a Daesh, lo Stato islamico contro il quale non ha mai levato la propria indignazione. Resta il fatto che oggettivamente episodi come quelli di Adelaide testimoniano del “tifo” che l’Arabia Saudita fa per quei dannati che insanguinano il mondo. Dissociarsi aderendo all’invito ad osservare un minuto di silenzio da parte dei calciatori di sua maestà Salman al-Saud per ricordare il crimine londinese avrebbe significato “oltraggiare” l’Isis evidentemente. Ed è altrettanto evidente, almeno per noi, che la comunità internazionale, il governo del calcio mondiale dovrebbe non soltanto prendere le distanze da un quanto è accaduto, ma espellere dalle sue organizzazioni l’Arabia Saudita per indegnità.

Sappiamo che non si arriverà a tanto e l’episodio resterà ai margini delle solite polemiche che tracimano dal football per diventare elementi “politici”. Con il che si chiude la partita perché sembra che nessuno, ma proprio nessuno, abbia interesse ad inimicarsi uno Stato con cui molti affari sono aperti. Tanto la Fifa quanto l’Uefa , l’Afa e l’unione calcistica africana si sono ben guardate dal far sentire la loro voce difronte all’insolente dileggio saudita.

Ad Adelaide i responsabili della federazione asiatica avrebbero dovuto quantomeno sospendere la partita, impedire che il calcio d’inizio venisse dato dopo l’affronto ai morti. Non è accaduto. Neppure gli spettatori si sono mossi dal loro posto che avrebbero dovuto abbandonare. E gli arbitri non ci risulta abbiano annotato nulla nei loro referti.

Con gente che rifiuta l’umana pietà, che si volta dall’altra parte, che sceglie di stare con il “nemico” dell’Occidente, dell’Oriente, dell’Umanità – è il solo modo in cui si può leggere la strafottenza saudita – non si possono intessere scambi, neppure di tipo sportivo. Anzi, è soprattutto sul terreno sportivo che la partita diventa decisiva laddove la lealtà, l’onore, il merito, le qualità morali e perfino spirituali dovrebbero prevalere sulle ragioni della convenienza e su quelle del mercato che si è impossessato del calcio facendone il più grande business globale dai risvolti talvolta inquietanti, indipendentemente dall’osservanza di un rigore etico che dovrebbe ispirare lo sport.

Tra cinque anni i Mondiali di calcio si giocheranno nel Qatar, un altro Stato del Golfo all’attenzione della politica. Questo piccolo, ma cruciale emirato è entrato nell’occhio del ciclone della guerra civile islamica che si sta combattendo (ma quando se ne accorgerà l’Unione europea che è di questo che si tratta in Medio Oriente soprattutto e viene esportato nel nostro cieco e sordo Continente?). Isolato dall’Arabia Saudita e da chi la segue nel suo progetto di annientamento dell’Iran e della Siria (per la gioia dell’Isis naturalmente), il Qatar con quale spirito potrà ospitare una manifestazione che catalizzerà l’attenzione del pianeta ed accenderà interessi economici e finanziari assai rilevanti?

La “seconda guerra del football”, per parafrasare un noto libro di Ryszard Kapuscinski, uno dei più grandi reporter contemporanei, un vero e proprio Erodoto della modernità, si sta preparando. Ad Adelaide ne abbiamo avuto un primo, disgustoso assaggio.

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