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Come e perché Macron ha marciato sulla Francia spianando Le Pen, Mélenchon, socialisti e repubblicani

Emanuell Macron

In due mesi Emmanuel Macron si è presa la Francia. Non era mai accaduto nella ormai lunga storia della Quinta Repubblica. Soltanto nel 1993 la coalizione Udf-Rpr ottenne 447 seggi all’Assemblea nazionale, ma un partito solo mai aveva conquistato la maggioranza assoluta; per di più un partito nato pochi mesi fa e che dopo le presidenziali di maggio ha messo su candidature che hanno avuto del miracoloso nell’imporsi all’attenzione e al gradimento degli elettori.

La République en marche! ha conquistato il Parlamento sorprendendo probabilmente lo stesso presidente che non credeva nella capacità di un movimento improvvisato e non strutturato, ma in grado di intercettare i sentimenti di un’opinione pubblica diffusa disgustata dai vecchi partiti, di cannibalizzare un’intera classe politica con la concretezza “rivoluzionaria” di un messaggio che è passato, ha fatto breccia in ogni dove (grandi città e centri rurali) e presso tutti i ceti, trasversalmente. Al di là della destra e della sinistra Macron è riuscito ad andarci sul serio.

Con la sua schiacciante maggioranza parlamentare, ben oltre i 400 seggi, forse alla fine se ne conteranno 450, si è conquistato il diritto/dovere di governare come vuole un Paese che docilmente e ragionevolmente gli si è consegnando relegando le bufale demagogiche, falsamente post-ideologiche, di chi non capito che la Francia voleva ben altro che l’uscita dall’Unione europea, l’abbandono della moneta unica, il pauperismo vetero comunista dipinto con i colori della ribellione (“insoumise” l’ha chiamata Mélenchon), il confusionismo socialista relegato ai margini del sistema e l’inconsistenza programmatica, oltre che umana e civile di molti esponenti Républicains, pallidi epigoni della tradizione gollista sfregiata dai Sarkozy e dai Fillon.

La caduta libera di Marine Le Pen, a rischio di formazione del gruppo parlamentare (probabilmente non otterrà i quindici deputati necessari) certifica che il “sovranismo identitario” se non è una dottrina che produce politica si riduce a conato elettorale buono per infiammare le folle (fino ad un certo punto), ma non certo per vincere partite decisive come quella per l’Eliseo e per la rappresentanza all’Assemblea nazionale. Gli errori imputati all’interno del suo stesso partito (e l’abbandono della nipote Marion la dice lunga al riguardo) alla bionda signora piuttosto autocratica ed aliena dal costruire un movimento culturalmente orientato e dunque capace di penetrare nelle coscienze dei cittadini, hanno portato il Front national alla disfatta perfino in quei collegi ritenuti “sicuri”. Si dovrà chiedere alla Le Pen per quale motivo molti dei suoi elettori hanno preferito votare En Marche! voltando le spalle al suo partito. Ma un’autocritica significherebbe l’ammissione di una deficienza molto più grave di tutte le altre. Vale a dire l’incapacità di connettersi ad una parte dell’establishment, che non è il diavolo, utilizzando elementi duttili e compatibili per non stravolgere completamente il sistema, ma per correggerlo. Il radicalismo di questi tempi non paga. Soprattutto in un Paese come la Francia dove si è assetati di certezze più che di avventure.

Lo stesso dicasi di Mélenchon, velleitario e inconcludente, la cui furbizia nel rifiutare l’appoggio o nel dichiarare apertamente l’ostilità a Macron non ha pagato: credeva che il silenzio lo avrebbe proiettato all’Assemblea nazionale ereditando i volti dei socialisti e costituendosi come sola opposizione. Errore che rivela un dilettantismo imperdonabile.

I post-gollisti, affidandosi ancora alla vecchia classe dirigente (tranne Juppé e Raffarin trasferitisi alla corte di Macron), vedono dimezzare la loro rappresentanza parlamentare (arriveranno a cento o poco più deputati dopo il ballottaggio di domenica prossima) e faranno l’opposizione di sua maestà sostanzialmente. Macron, con il suo primo ministro Eduard Philippe, l’uomo che “sussurrava” a Juppé, può dormire sonni tranquilli.

Fuori dal Parlamento le prove che attendono il presidente sono micidiali. Intanto la prevedibile accelerazione liberista che darà ai provvedimenti economici più attesi ed il legame con la Germania potrebbero offrire nuovi motivi di contestazioni e di attriti. La sua maggioranza reggerà, ma i francesi del rigore (da Macron stesso per la verità criticato) non ne vogliono più sentir parlare. Così come dell’immigrazione sostanzialmente incontrollata, mentre si attendono molto sulla sicurezza. La sfida terroristica, infatti, è in cima ai pensieri di tutti e tutti sanno che essa non si affronta con i cortei e le belle parole che nascondono il nulla. E poi la lotta alla povertà: con quali mezzi Macron e la sua maggioranza intendono affrontarla?

La Francia ha firmato una cambiale in bianco. Le forze politiche sconfitte, per quanto moribonde, non tarderanno a rialzare la testa dopo aver regolato i conti interni. I sindacati sono sul piede di guerra di fronte ad una disoccupazione che tende a crescere piuttosto che a diminuire. La gente comune si aspetta che salari e pensioni pesino di più e dunque chiedono un alleggerimento fiscale che l’Unione europea non permetterà. I provvedimenti di Macron, libero dagli schematismi del passato, potrebbero ispirarsi ad un “conservatorismo sociale” che non è un ossimoro politico, ma una pratica sulla quale politici come Reagan, per esempio, costruirono le loro fortune. Ne sarà capace? L’alternativa, come si ipotizza, è la scelta neo-liberista, non diversamente da quella ereditata da Hollande del quale Macron è stato ministro dell’Economia, con tutte le prevedibili conseguenze. E la Francia potrebbe non perdonarlo per aver dilapidato un consenso che nessuno prima di lui, sconosciuto fino ad un anno fa, ha ottenuto. Sulla parola e in odio ai suoi avversari.

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