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Perché Renzi e Berlusconi non devono illudersi: la rabbia a 5 stelle non è scemata

bruxelles, euro, francia, Italia

Sul futuro della premiata ditta Grillo & Casaleggio si vedrà. Se si è di fronte solo ad una battuta d’arresto o a qualcosa di più profondo. Una cosa è invece certa: gli sconfitti sono i sondaggisti. Tutti coloro che, per mesi e mesi, hanno parlato di un tripolarismo, destinato a rendere ancor più problematico il già difficile equilibrio politico italiano. Questi ultimi non solo dovranno rifare i propri conti, ma anche rivedere schemi logici ed algoritmi, se vogliono veramente fotografare la realtà italiana. Che appare sempre più sfuggente rispetto a qualsiasi ipotesi interpretativa.

Al momento non resta che prendere atto di quanto e avvenuto e ricamarci sopra. Consapevoli, tuttavia, del carattere approssimato di queste analisi: pronte ad essere smentite e gettare il cronista politico nel più nero sconforto. Pur consapevoli di questo rischio, qualche ipotesi si può avanzare, tenendo conto della storia patria più complessiva. A Grillo un merito va riconosciuto. Ed è un merito non da poco: quello di aver costituzionalizzato un dissenso sociale che ha un suo indubbio perché. L’Italia è l’unico grande Paese europeo che sta vivendo la coda velenosa delle due crisi che, a partire dal 2006, hanno distrutto ogni certezza. Prima la grande crisi finanziaria, scoppiata negli Stati Uniti e tracimata sull’intero Pianeta, con la sola esclusione della Cina e dell’India. Quindi quella dei debiti sovrani, ristretta principalmente all’Eurozona, con alla testa la Grecia, l’Italia, la Spagna ed il Portogallo.

Avvenimenti di questa portata non potevano essere senza conseguenze politiche. Che sia stata “la più grave crisi del secolo”, secondo Alain Greenspaan, ex governatore della Fed americana, o la più grave mai conosciuta prima, per dirla con le parole di Mario Draghi o, ancora, più devastante di quella del 1929, secondo le analisi del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, conta poco. La sostanza è che, per la prima volta, dalla fine della guerra, qualcosa si è spezzato nelle economie dell’Occidente. E questa frattura ha alimentato una rabbia diffusa, seppur venata di irrazionalismo e di nichilismo. Grillo ha saputo interpretare questo stato d’animo ed evitare che degenerasse in rivolte o sommosse senza sbocco.

Non è la prima volta che questo era successo. Nel ‘900 fu soprattutto il Partito comunista a svolgere questa funzione. La sua organizzazione di massa fece da argine, seppur con qualche difficoltà, a pulsioni rivoluzionarie, volte a modificare gli equilibri politici decisi a Yalta. Dove questo non fu possibile, come in Grecia, il risultato fu la soppressione delle libertà individuali e l’avvento al potere dei militari, sostenuti dalla Gran Bretagna e dagli stessi Stati Uniti. Il realismo, condito di doppiezza, di Palmiro Togliatti impedì questa deriva. Creò una grande forza d’opposizione che, pur subendo la cosiddetta “conventio ad escludedum”, contribuì, non da poco, a migliorare le condizioni sociali del Paese.

Probabilmente, senza quella forza organizzata, le grandi riforme agrarie dell’immediato dopoguerra non si sarebbero fatte. L’Agip di Enrico Mattei sarebbe stata smantellata, come richiedevano le “Sette sorelle” – le grandi multinazionali del petrolio – la costruzione del welfare italiano sarebbe stata ritardata. Ed invece il Pci fu un pungolo continuo. Una spina nel fianco delle classi dirigenti italiane, che le costrinse a andare oltre il proprio immediato tornaconto, nel timore che quella forza potesse aumentare e scardinare i fragili assetti del capitalismo italiano.

Funzione storica importante, quindi. Senza contare gli sforzi effettuati per dare agli “ultimi” della società italiana una coscienza di sé ed una speranza di cambiamento, seppure in un orizzonte lontano. Il rovescio della medaglia di questa strategia fu la costruzione di un ghetto, le cui mura portanti furono una cultura d’opposizione. Bastione insuperabile. Come dimostrò l’esperienza del “compromesso storico”. Giunti ormai nell’area di Governo, i comunisti abbandonarono la partita a seguito di una piccola sconfitta elettorale, che suonò come un campanello d’allarme. Se si mangiano solo i temi della protesta, passare alla successiva proposta politica diventa un salto mortale talmente pericoloso da scoraggiare il leader – in quel caso Enrico Berlinguer – più lungimirante. Ed il Pci ripiegò su se stesso, consegnando il bastone del testimone a quelle forze che, negli anni precedenti, avevano guidato il Paese.

Se la storia serve, l’analogia con il presente è evidente. Grillo, in tutti questi mesi, ha coltivato la cultura della diversità. Siamo noi il sale della terra. E seppure sbagliamo, come nel caso di Roma e di Torino, rimaniamo la scopa che spazzerà, come in un vecchio poster leninista, la casta dei corrotti. Ma la teoria della ramazza, com’era inevitabile, non è servita nel dibattito parlamentare: istituzione nata per includere e non per dividere. Ed è allora, nel corso della discussione della legge elettorale poi abortita, che questa contraddizione è emersa in tutta la sua forza distruttiva. E così una vecchia cultura d’opposizione ha dovuto, nuovamente, fare i conti con la difficile arte del governo. Pagando i prezzi relativi.

Ma quel monito deve servire. I partiti che hanno vinto questa tornata elettorale non possono illudersi. La rabbia rimane, nelle incertezze complessive che avviluppano, come un sudario, la società italiana. Occorre trovare rapidamente le risposte necessarie, cambiando le vecchie abitudini del passato. Se questo non avverrà, forse la crisi inghiottirà anche il Movimento 5 stelle; ma la quella stessa rabbia rimarrà. E non trovando più sponde politiche, potrà deflagrare verso sbocchi ben più pericolosi.

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