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Beppe Grillo, ovvero il tragico visto di spalle

Beppe Grillo

Secondo Carl Gustav Jung, in ogni disordine c’è un ordine nascosto. Dal canto suo, José Saramago ha scritto che il caos è solo un ordine non ancora decifrato. Sarà anche vero, ma sospetto che nemmeno un Alan Turing sarebbe capace di decrittare il cafarnao italiano sulla legge elettorale.

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A pensarci bene, le riforme elettorali dell’ultimo quarto di secolo hanno un merito culturale tutt’altro che disprezzabile: quello di aver riscoperto il latinorum.

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Pur avendo una concezione realistica della politica, devo ammettere che il successo di Silvio Berlusconi prima, di Matteo Salvini e Beppe Grillo poi, è in larga misura ascrivibile al disgusto che gli italiani hanno maturato nei confronti del Palazzo di pasoliniana memoria, visto come luogo di estenuanti e inconcludenti mediazioni, di puro potere e di corruzione dilagante. Chi di antipolitica ferisce, però, di antipolitica può perire. La Seconda Repubblica è ormai sul viale del tramonto, e anche questa volta le campagne moralistiche contro le ignominie della Casta continuano a occupare la scena.

Possiamo anche prendercela con la magistratura, con i giornali, con i talk show televisivi, con i social media, ma la verità è che un’intera classe dirigente è sotto scacco, in quanto – per riprendere l’immagine di Bernard de Mandeville – esibisce molti vizi privati ma offre pochi benefici pubblici. Insomma, non ha più autorevolezza. Un padre può perdere la sua autorevolezza sia picchiando il figlio che discutendo con lui, cioè sia comportandosi come un despota che trattandolo come un uguale. Per poterla conservare ci vuole rispetto, per la persona o per la carica che ricopre. Quando al rispetto subentra – a torto o a ragione – il disprezzo, il destino di una élite politica è segnato. È possibile che qualche trasformista di professione riesca a farla franca, ma perché esso si compia è solo questione di tempo.

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Traggo la storiella che segue da un aureo pamphlet di Andrea Tagliapietra, Non ci resta che ridere (il Mulino, 2013). Nel film di Patrice Leconte Ridicule (1996), ambientato nella Francia del 1780, il protagonista, marchese de Malavoy, si fa largo alla corte di Luigi XVI a colpi di motti di spirito, ossia mettendo in ridicolo i suoi rivali. Il suo scopo è avvicinare il re per proporgli un importante progetto umanitario di bonifica, che avrebbe posto al riparo dalla malaria le popolazioni del suo feudo. Ma proprio quando sta per raggiungere l’obiettivo cade vittima di un tiro mancino: letteralmente di uno sgambetto che lo fa ruzzolare a terra durante un ballo di corte, rendendolo ridicolo e precudendogli definitivamente l’accesso all’attenzione e ai favori del monarca.

Di fronte alle risate dei cortigiani, il marchese li accusa invano di insensibilità morale nei confronti delle sorti delle donne e delle donne che la mancata bonifica delle paludi condannerà alla malattia e alla morte. Essi, infatti, hanno davanti agli occhi solo la sua goffaggine e non lo ascoltano neppure. In altre parole, il ridicolo esclude ogni condivisione emotiva delle disgrazie altrui. Come scriveva Henri Bergson due millenni e mezzo dopo Aristotele, “il comico esige, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa che somigli a un’anestesia momentanea del cuore” (Il riso. Saggio sul significato del comico, Mondadori, 1992).

Ora, se esaminiamo quella forma breve del discorso comico che si traduce nella battuta fulminante della barzelletta, è possibile, a partire da suo bersaglio manifesto, ricostruire la cartà d’identità di un popolo, di un gruppo politico, di una classe sociale, colti in un determinato momento della loro storia. Razzismo, sessismo, antisemitismo e ogni genere di pregiudizi e di luoghi comuni (gli idola fori di Bacone) si cristallizzano, circolando, “in odiosa moneta spicciola, grazie alla capillare comunicazione orale della barzelletta” (Tagliapietra). Ebbene, il mio sarà cupo pessimismo, ma il genere narrativo dominante nel dibattito politico domestico non è forse quello della derisione, termine che designa la trasformazione della spontaneità del riso nel gesto intenzionale di chi non solo ride delle disavventure del suo avversario, ma ride per far male e ferire profondamente la vittima del suo dileggio? In questo senso, pensando a un personaggio come Grillo (la lingua batte dove il dente duole) si potrebbe dire che il comico altro non è che il tragico visto di spalle.

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