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Vi racconto quando Falcone e io andammo per la prima volta negli Usa

Di Giusto Sciacchitano

Terzo di una serie di articoli a firma dell’ex componente del Pool Antimafia Giusto Sciacchitano. Il primo è consultabile qui, il secondo qui.

Falcone intuì subito che la mafia aveva ormai allargato i suoi tentacoli anche in altre zone d’Italia e addirittura all’estero, per cui anche lì bisognava cercare le prove per i nostri processi: e il metodo richiedeva il sacrificio personale di andare a cercarle.

I primi contatti (cui molti altri se ne aggiunsero) furono stabiliti con l’Autorità giudiziaria (AG). di Milano nell’ambito del processo Spatola perché in quella città era stato sequestrato il più ingente quantitativo di droga (40 kg) che, partito da Palermo, era stato fatto transitare da Milano per eludere i controlli agli aeroporti di Palermo e Roma.

L’A.G. di Palermo a quel tempo non aveva buona fama. L’insuccesso di tanti processi a causa di una evidente lacunosità delle indagini, suscitava diffidenza in altri Uffici; figurarsi quindi cosa hanno pensato i colleghi di Milano quando ci presentammo a loro per chiedere che quel carico di eroina venisse trasmesso a Palermo per competenza!

Ricordo ancora l’allora Giudice Istruttore Pizzi che era ben deciso a rifiutare le nostre richieste. Ma qui sta già la prima grande intuizione di Falcone: non limitarsi a inviare una rogatoria all’A.G. di Milano per chiedere gli atti che noi ritenevamo di nostra competenza come fino ad allora sempre si faceva, ma andare direttamente a Milano, e poi ovunque era necessario, per instaurare un rapporto personale e continuare a sviluppare insieme le successive indagini.

Il metodo funzionò; Falcone lo convinse e da allora con Milano si imstaurò un clima di reciproca fiducia che consentì di iniziare una stagione nuova e diversa di proficua collaborazione che non aveva precedenti. Altro caso di completa collaborazione, nello stesso processo, fu quello relativo al ricordato caso Sindona, che a Milano era seguito in particolare dai colleghi della Procura Colombo e Turone: dall’incrocio degli accertamenti effettuati dai due uffici giudiziari fu possibile ricostruire completamente il percorso di Sindona dall’America in Italia e ritorno, alcuni dei suoi incontri e addirittura, con le dichiarazioni rese a Falcone da Miceli Crimi, il suo ferimento compiacente compiuto da quest’ultimo.

Analoga attività fu svolta prima con gli Stati Uniti, poi con il Canada e in seguito con tanti Paesi europei ed extraeuropei. Il sequestro a Milano dell’eroina in partenza per gli Usa comportava di estendere le indagini oltre Oceano. Ci recammo quindi a New York per la prima volta nel dicembre 1980.

Tante volte in seguito ricordammo con Falcone quel primo viaggio: andavamo nell’ufficio del District Attorney Federale Rudolph Giuliani ed eravamo due signor nessuno che chiedevano collaborazione agli Stati Uniti!
Non vi erano trattati tra i nostri Paesi, non vi erano precedenti significativi, non avevamo se non la formale autorizzazione alla missione, e previ contatti attraverso la Polizia dei due Paesi.

Il primo impatto con quell’ufficio e con la DEA fu per noi carico di sorprese. Certamente fummo accolti con cortesia e certamente fummo studiati: in fondo chiedevamo informazioni e atti istruttori nei confronti di persone di spicco della mafia italo-americana, ma quello che però ci colpì (ricordarlo oggi fa quasi sorridere) fu la scoperta del computer! Io non l’avevo ancora visto direttamente pur se ne conoscevo le potenzialità. Quando ci sedemmo a discutere, noi aprimmo i nostri quaderni e le nostre agende nelle quali segnavamo i nomi degli imputati e, accanto a ciascuno, i fatti principali che dovevamo accertare; gli agenti della DEA aprirono i loro computers nei quali risultavano inseriti gli stessi nomi con i collegamenti e i riferimenti già effettuati. Ci spiegarono che la rete dei computers si articolava per Contee, Stati e Federazione e che era uno strumento indispensabile per affrontare una organizzazione articolata come la mafia! Eravamo certamente d’accordo ma non potevamo assicurare che l’avremmo avuto presto anche noi. Il risultato fu comunque estremamente positivo.

Nacque quasi istintivamente un rapporto personale strettissimo con i collaboratori di Giuliani (soprattutto Louis Free e Richard Martin) e con gli Agenti prima della DEA e poi dell’FBI che, negli anni, ci consentì di muoverci con gli Stati Uniti con la stessa speditezza e concretezza che avveniva con i colleghi italiani. In America, già in quella occasione, incontrammo una nuova figura processuale che poi sarebbe divenuta familiare anche da noi: il collaboratore di giustizia. L’eroina a Milano era stata scoperta grazie a un infiltrato della DEA all’interno della famiglia Gambino; scoprimmo così da vicino l’utilità offerta da questo tipo di collaborazione e, in successive indagini, avemmo modo di cominciare a studiare se e come potere trasferire anche in Italia questa nuova esperienza.

Tra i risultati positivi da ricordare in quella prima fase di rapporti internazionali, vi è certamente quello relativo alla conoscenza del sistema giuridico e giudiziario del Paese con il quale intrattenere i rapporti. Al riguardo non avevamo alcuna conoscenza e non vi erano precedenti cui fare sicuro riferimento. E commettemmo forse anche errori dai quali però traemmo insegnamenti per il prosieguo delle indagini.

Mi riferisco al momento in cui chiedemmo l’estradizione in Italia di diversi imputati tra i quali John Gambino, ritenendo che fosse sufficiente il mandato di cattura (a quel tempo anche succinto) per il reato di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) e traffico di stupefacenti, emesso da Falcone. Non avendo nessuna risposta dalle autorità americane, nonostante diverse sollecitazioni e una lettera inviata dallo stesso Giudice anche ai nostri Ministeri della Giustizia e degli Affari Esteri, in occasione di una mia missione negli Usa, chiesi dirette informazioni alla nostra Ambasciata a Washington e così scoprimmo che il Giudice Federale aveva ritenuto quell’atto insufficiente, non capiva cosa fosse l’associazione per delinquere, e noi non avevamo dimostrato la “probable cause”, ossia che quell’imputato aveva commesso quel reato.

Cominciammo allora a studiare la normativa americana, organizzammo, con l’intervento e l’assistenza del nostro Ministero della Giustizia, un convegno a Roma su questi temi invitando anche colleghi dagli Usa per illustrarci la loro legislazione e prassi, si gettarono le basi per un nuovo Accordo di Governo su collaborazione giudiziaria ed estradizione, che infatti furono firmati nel 1984.

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