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Perché l’attacco dell’Isis in Sinai preoccupa Israele

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“Potrebbero essere gli ultimi secondi della mia vita”. Così sussurrava venerdì mattina in un messaggio vocale su whatsapp che sta ampiamente circolando sui media arabi un soldato egiziano ad un collega mentre il suo checkpoint nel Sinai veniva preso d’assalto da decine di terroristi dell’ISIS. Alle prime luci dell’alba al checkpoint del villaggio di el-Barth, a poche miglia dalla città di Rafah sul confine israeliano, un’autobomba veniva fatta esplodere in un attacco suicida. Pochi attimi dopo dozzine di jihadisti sono scesi dai loro Suv iniziando a sparare con armi automatiche sui 60 soldati egiziani di stanza.

Il bilancio è di almeno 26 militari egiziani uccisi in uno scontro a fuoco durato per quasi mezz’ora. L’attacco, rivendicato dall’ISIS sui social, spezza un periodo di relativa quiete nel Sinai, regione che da anni, prima ancora della nascita del califfato, subisce la presenza di gruppi jihadisti, che possono operare indisturbati nascondendosi nel deserto e fra le montagne, e facendo facili proseliti tra le tribù locali. L’ultimo attacco jihadista risaliva a gennaio, quando otto poliziotti di el-Arish erano stati uccisi dai miliziani. Il checkpoint di el-Barth era stato aperto solo due mesi fa, non senza dure polemiche per la posizione di isolamento che espone eccessivamente i soldati egiziani alle incursioni dei militari. Difatti il deposito di armi più vicino è a un’ora di auto, mentre la zona di confine intorno a Rafah vede una massiccia presenza dell’ISIS, non di rado impegnato in violentissime battaglie con le tribù locali.

“Veloce, oh mio Dio, chiunque sappia come raggiungere il comando centrale, li avvisi di usare l’artiglieria finché siamo ancora vivi!” digitava uno dei soldati al riparo dagli spari, e poi ancora “li vendicheremo o moriremo”, riferendosi ai suoi commilitoni uccisi. Il ministero dell’Interno egiziano ha confermato che agenti di polizia hanno effettuato un raid in un campo di addestramento nel deserto a Est della provincia di Ismailiya, uccidendo 14 jihadisti coinvolti nell’attentato. La portavoce del Dipartimento di Stato americano Heather Nauert ha duramente condannato l’attentato, scrivendo in un comunicato: “noi continuiamo a stare al fianco dell’Egitto nella sua lotta al terrorismo”. Egitto che aveva dichiarato lo stato d’allarme nel Sinai settentrionale già nell’ottobre del 2014, quando 30 soldati erano morti in un assalto dei jihadisti, superato per violenza solo dall’imboscata del 1 luglio 2015, quando l’ISIS aveva massacrato 50 militari egiziani. Una serie di episodi violenti che sembrava essersi arrestata negli ultimi mesi, e che ora riprende con vigore nel momento in cui l’ISIS ha perso Sirte e arranca in Yemen.

Il presidente Abdel Fattah al-Sisi aveva dichiarato lo stato d’emergenza in tutto il paese all’indomani del vile attacco di aprile ad Alessandria e a Tanta, quando 45 persone avevano perso la vita mentre i cristiani-copti festeggiavano la domenica delle Palme. Più volte negli ultimi anni le autorità egiziane hanno accusato alcuni paesi musulmani come il Qatar e la Turchia di finanziare i terroristi nel Sinai. I palestinesi di Hamas, anche loro spesso nel mirino delle accuse egiziane e in cerca di un riavvicinamento al governo di al-Sisi, si sono affrettati a condannare l’attentato di venerdì, definendolo “un attacco codardo che non mira solo all’Egitto, ma alla sicurezza e alla stabilità dell’intera regione araba”.

Ma a preoccuparsi della crescente instabilità nel Sinai sono anche e soprattutto gli israeliani. Già in aprile il governo di Tel-Aviv aveva chiuso, all’indomani dell’attentato contro i copti in Egitto, l’attraversamento del confine a Taba, con il ministro dell’Intelligence Yisrael Katz che aveva avvisato dell’”intensificarsi delle attività” dell’ISIS nel Sinai. Questo sabato, riferisce il Times of Israel, il generale israeliano Yoav Mordechai, coordinatore delle attività del governo nei territori, ha pubblicato su facebook un post in cui sostiene che quattro dei miliziani che hanno preso parte all’attentato avevano trascorsi in Hamas. Una pesante accusa che, se fosse confermata, spiegherebbe come Hamas “permetta il passaggio libero di elementi terroristici tra Gaza e il Sinai e vice-versa”, scrive ancora il generale, per concludere che “ Hamas e lo Stato Islamico sono due facce della stessa medaglia”.

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