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Mps, ecco perché il Tesoro doveva entrare prima nel capitale del Monte

La crisi finanziaria internazionale innescata dopo il fallimento della Lehman Brothers, nel settembre 2008, è stata affrontata in modo diverso negli Stati Uniti e in Europa.

Negli Stati Uniti le istituzioni pubbliche sono intervenute immediatamente, sin dall’autunno del 2008, per indurre le banche ad aumentare il loro patrimonio, obbligando le più grandi anche ad accettare un sostegno pubblico. Sin dalla primavera del 2009 sono stati effettuati degli stress test per verificare l’adeguatezza del capitale, anche sotto condizioni estreme. I risultati sono serviti per dare chiare indicazioni ai manager e agli azionisti sugli obiettivi patrimoniali da raggiungere. Alle banche è stato impedito di distribuire dividendi, fin quando non avessero raggiunto soglie di capitale in linea con gli obiettivi indicati. Sono stati messi in liquidazione molti istituti di dimensioni minori, anche usando fondi pubblici.

In Europa l’approccio è stato diverso. Si è diffusa in quasi tutti i Paesi la parola d’ordine secondo cui “le nostre banche sono solide”. Il primo stress test, coordinato nell’area dell’euro dopo la crisi greca, nel maggio 2010, ha dato risultati poco convincenti. La conduzione dei test da parte delle autorità di vigilanza nazionali, con un coordinamento minimo europeo, ha creato l’incentivo a presentare una fotografia della situazione molto più rosea della realtà. Il secondo esercizio, avvenuto nell’autunno del 2011, ha dato risultati solo marginalmente migliori, dal punto di vista della credibilità.

L’intervento pubblico in Europa non ha avuto, nel suo insieme, un carattere preventivo, mirato a stabilizzare l’intero sistema e obbligarlo a mettere rapidamente in atto le ristrutturazioni necessarie per ridiventare competitivi. I fondi pubblici sono stati usati piuttosto per salvare le banche in difficoltà ed evitare ristrutturazioni eccessivamente costose dal punto di vista dei bilanci e dell’occupazione. Sono state mantenute così in vita banche inefficienti, come in Giappone negli anni Novanta.

Nel complesso, non si è avuto in Europa il coraggio di affrontare la crisi di petto, preferendo minimizzare i problemi e sottostimando il peso crescente delle sofferenze sui bilanci bancari, nella speranza che la ripresa economica avrebbe prima o poi risolto i problemi. Le svalutazioni sono state modeste e gli aumenti di capitale ridotti al minimo necessario, deliberati solo quando erano diventati inevitabili. Si è cercato di migliorare i requisiti patrimoniali agendo dal lato dell’attivo, contraendo le attività e cercando di favorire il rientro accelerato delle posizioni dei debitori, con effetti talvolta dirompenti per le aziende.

Questo è avvenuto soprattutto nei Paesi della periferia, dove la crisi economica è stata più severa e con effetti maggiori sulla solidità dei bilanci bancari. La Spagna, ad esempio, ha aspettato fino al 2012 per fare richiesta di un intervento al Fondo salva stati al fine di finanziare una bad-bank per ripulire i bilanci bancari e favorire la ristrutturazione del sistema.

In sintesi, l’Europa ha reagito peggio semplicemente perché non c’era. Mancavano le istituzioni europee nel settore della regolamentazione e della vigilanza bancaria in grado di superare le divisioni e inefficienze nazionali. Ma l’assenza dell’Europa era voluta, almeno fino alla crisi, soprattutto dai Paesi membri, che non erano disposti a privarsi dei poteri di regolamentazione e di indirizzo di cui disponevano. Solo di fronte all’evidenza, nel bel mezzo della crisi, i governi dei 19 Paesi dell’euro hanno accettato di creare l’Unione bancaria, ossia un sistema di regolamentazione e di vigilanza unificato.

Nell’estate 2012, il Consiglio europeo ha deciso di dar vita all’Unione bancaria, attribuendo poteri di vigilanza alla Bce e costituendo un fondo di risoluzione per intervenire in caso di crisi di una banca rilevante, previo coinvolgimento degli azionisti e dei detentori di obbligazioni subordinate. La vigilanza unica ha iniziato a operare solo nell’autunno del 2014, sottoponendo le 130 principali banche a un sistema omogeneo di controlli, con la possibilità di estendere il suo raggio d’azione alle altre più piccole.

Il sistema rimane tuttavia incompleto. Manca un sistema di garanzia dei depositi integrato, che consenta di ridurre il rischio di crisi localizzate in alcuni Paesi e il rischio di contagio. Vi sono ancora incertezze sul modo in cui una banca in difficoltà possa far ricorso al mercato e a quali condizioni possa essere ricapitalizzata con fondi pubblici in caso di crisi. Non è ancora chiaro l’intendimento delle autorità di vigilanza per quel che riguarda la struttura del mercato e le possibilità di aggregazione.

All’interno del mercato europeo, è peculiare la situazione del sistema bancario italiano. Non si deve cascare nell’errore di uniformare il giudizio su situazioni che sono molto diverse, come dimostra il fatto che vi sono banche italiane sane, ben patrimonializzate e che hanno continuato a erogare credito, mentre altre sono state – e in alcuni casi continuano a essere – in gravi difficoltà. Già prima della crisi, alcune banche hanno prestato in modo oculato, secondo criteri di sana e prudente gestione, hanno attinto al mercato dei capitali appena hanno visto indebolirsi la situazione patrimoniale, hanno rinnovato il management secondo criteri meritocratici e adottato sistemi di governance moderni. Altre banche hanno fatto esattamente l’opposto e, non a caso, si sono trovate in crisi. Hanno erogato credito senza valutarne il merito in modo adeguato e sulla base di garanzie sopravvalutate; hanno adottato modelli di governance che hanno lasciato troppo spazio alla commistione tra chi dava e chi riceveva il credito e ai conflitti di interesse; non hanno fatto ricorso ad aumenti di capitale al momento giusto; hanno continuato a distribuire dividendi per accontentare gli azionisti invece di guardare alla solidità della banca; hanno cercato di rafforzare il patrimonio vendendo titoli subordinati a piccoli risparmiatori che non sempre erano in grado di capirne il rischio; non hanno dedicato tempo e risorse sufficienti alla funzione di controllo tipica del consiglio di amministrazione; hanno fatto scelte di crescita non oculate e al momento sbagliato sulla base di business model obsoleti; hanno mantenuto in carica manager e amministratori incompetenti che hanno nascosto o sottovalutato il deterioramento della posizione di bilancio delle rispettive banche. Il sistema, nel suo insieme, ha probabilmente tardato a riconoscere queste differenze. Ha interpretato le prime difficoltà di questa seconda categoria di banche come la conseguenza della forte recessione che ha colpito il Paese, con l’aspettativa che una ripresa dell’attività economica avrebbe contenuto l’impatto sul bilancio, rendendo non necessario il rafforzamento patrimoniale. La ripresa ha tardato, ed è stata rallentata dalla stessa situazione del sistema bancario, troppo esposto al rischio sovrano. La riduzione dei tassi d’interesse ha colpito la redditività bancaria, mostrando la debolezza di un sistema troppo frammentato, con esigenze diverse di remunerazione del capitale. Il sostegno a tutti i costi di operatori poco redditizi ha finito per minare la redditività dei più efficienti.

Quando è apparso chiaramente che la crisi economica e finanziaria sarebbe stata più lunga del previsto, e che le sofferenze sarebbero diventate un peso gravoso sul bilancio delle banche, si è tardato a riconoscere il problema. Non sono state tempestivamente effettuate le rettifiche necessarie ai valori delle garanzie, e dunque dei crediti, nel timore che ciò avrebbe compromesso la redditività di breve periodo della banca, e dunque la distribuzione degli utili agli azionisti e dei bonus ai manager. Si è tardato a modificare il modus operandi, il business model , la corporate governance.

Si è altresì cercato in tutti i modi di evitare che lo Stato intervenisse direttamente nel risanamento del sistema bancario. Il caso più emblematico è quello del Monte dei Paschi di Siena, a cui si è preferito erogare un prestito, nel 2012, a tassi elevatissimi, piuttosto che entrare direttamente nel capitale, quando le condizioni normative lo consentivano, e premere per una ristrutturazione incisiva. Ciò non ha fatto altro che prolungare l’agonia. Quando la decisione di sottoscrivere il capitale con fondi pubblici è diventata inevitabile, alla fine del 2016, il costo per i contribuenti è risultato ben maggiore e l’impatto sui piccoli risparmiatori più ampio di quanto non sarebbe stato se la decisione fosse stata presa qualche anno prima. La riluttanza a usare fondi pubblici ha anche fatto pesare l’onere del salvataggio sulla parte sana del sistema, ad esempio nel caso delle quattro banche ristrutturate alla fine del 2015, con il risultato di indebolire quest’ultima, rendendo il problema sistemico. Invece di intervenire in modo chirurgico, sulla parte malata, si è lasciato che il problema si estendesse, al punto che i mercati internazionali avevano difficoltà a distinguere tra i vari casi e hanno assimilato tutti nello stesso paniere di rischio.

L’incertezza sulle nuove regole europee – prima adottate, ma poi criticate – e sulla loro applicabilità, ha contribuito al clima di sfiducia nei confronti del sistema bancario, che ne è stato fortemente indebolito. Nel complesso, il protrarsi della crisi bancaria ha rappresentato un ulteriore freno alla crescita italiana.

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