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Cosa succede davvero tra Israele e Giordania

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L’attacco di ieri sera all’ambasciata israeliana di Amman – bilancio, due morti e un ferito – aggiunge benzina sul fuoco di una già grave crisi tra lo Stato ebraico e i Paesi musulmani. L’episodio è avvenuto in un edificio di pertinenza della sede diplomatica di Gerusalemme: un operaio giordano di origine palestinese ha assalito con un cacciavite una guardia, che ha risposto aprendo il fuoco sull’assalitore, che è morto insieme al proprietario della struttura, un medico giordano. Il governo giordano ha aperto un’inchiesta e, secondo le agenzie di stampa, starebbe impedendo il ritorno in patria dello staff dell’ambasciata e in particolare della guardia che ha sparato. Il governo israeliano dal canto suo ha replicato che il personale dell’ambasciata gode dell’immunità diplomatica sulla base della convenzione di Vienna.

Amman si trova chiaramente in una situazione delicata. Sebbene abbia siglato una storica pace con Israele nel 1994 e collabori sistematicamente con Gerusalemme in materia di sicurezza, la Giordania è anche un paese abitato da una popolazione prevalentemente di origine palestinese, che non esita a scendere in piazza quando la tensione in Terra Santa sale. E in questi giorni la tensione è alle stelle, con morti e feriti tra israeliani e palestinesi, a causa della decisione del governo Netanyahu di installare dei metal detector all’ingresso della spianata delle moschee, terzo luogo sacro per i musulmani che anche gli ebrei venerano come monte del Tempio. La misura, che ha infiammato gli animi dei palestinesi e dei loro correligionari nel mondo (malumori si registrano anche in Italia) è stata presa a seguito dell’attentato avvenuto nella spianata il 14 luglio, quando tre palestinesi provenienti dalla Galilea sono penetrati armi in pugno nel sito uccidendo due poliziotti israeliani.

L’installazione delle nuove misure di sicurezza, unitamente ad un provvedimento temporaneo che nega l’accesso alla spianata ai musulmani con meno di 50 anni, ha provocato l’immediata reazione palestinese, che sospetta, ingiustificatamente, che lo Stato ebraico voglia cambiare lo status del luogo sacro, attualmente affidato all’amministrazione giordana con una clausola che stabilisce il divieto per gli ebrei di pregare nel sito. Venerdì scorso, giorno della preghiera collettiva per i musulmani, i palestinesi hanno indetto una giornata della rabbia, scatenando scontri con le forze dell’ordine israeliane che hanno causato tre vittime tra le fila dei dimostranti. Per tutta risposta, la stessa sera un palestinese è penetrato nell’abitazione di una famiglia ebraica residente nella West Bank, accoltellando mortalmente tre persone e ferendone un’altra. Gli scontri sono proseguiti per tutto il weekend, mentre la collera si diffondeva in tutto il mondo islamico e la Lega araba accusava Israele di “giocare col fuoco”.

Sebbene sia rimasto sulle proprie posizioni, confermando le nuove misure di sicurezza, il governo israeliano sembra essersi spaccato, riferiscono i media israeliani, con esercito ed intelligence che propendono per la rimozione dei metal detector e Netanyahu schierato con i suoi colleghi della destra sulla linea dell’inflessibilita’. La gravità della situazione è tale che la Casa Bianca ha frettolosamente spedito nella regione l’inviato Jason Greenblat, il cui arrivo è previsto oggi. Di concerto con il consigliere e genero di Trump Jared Kushner, che ha la delega sui colloqui di pace tra israeliani e palestinesi, Greenblat cercherà di riportare alla calma le parti prima che l’incendio dilaghi e acuisca una crisi di cui il Medio Oriente non ha affatto bisogno.

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