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Russia, ecco come Gazprom con il gasdotto Potenza della Siberia sposterà gli equilibri energetici

Costerà 850 miliardi di rubli, pari a 14,4 miliardi di dollari o 12,5 miliardi di euro. Il nome ufficiale è Сила Сибири, in inglese si traduce con Power of Siberia e in italiano sia come Potenza della Siberia che come Potere della Siberia. L’ambiguità è voluta…

Si tratta di un enorme gasdotto lungo complessivamente 4000 km in grado di trasportare fino a 61 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Ma quello che cambia gli equilibri energetici mondiali è il suo percorso: il gasdotto sarà in grado di unificare le due principali reti di condotte della Russia, quella occidentale e quella orientale.

Power of Siberia parte dai campi delle regioni di Krasnoyarsk, di Irkutsk e della Yakutia, dove si estrae il gas che alimenta l’Europa. Ma invece di puntare verso ovest come al solito, punta decisamente ad est fino a raggiungere Khabarovsk e da qui si collega alla rete che unisce i campi dell’isola di Sakhalin con Vladivostok.

E quando ci si mettono, i russi non scherzano: Alexander Ivannikov, capo della divisione politica economica e finanziaria di Gazprom, ha annunciato pochi giorni fa che i primi 800 km di condotta sono già stati ultimati e che i lavori proseguono in anticipo sulla tabella di marcia.

Entro la fine del 2018, Gazprom prevede che sarà completata la sezione lunga 2200 chilometri che collega il campo di Chayanda a Yakutia con Blagoveshchensk sul confine russo-cinese. Inoltre verrà realizzata una sezione che collega Chayanda con il campo Kovykta nella regione di Irkutsk (circa 800 km di condotta) e una sezione da Svobodny nella regione Amur a Khabarovsk (1000 km). Questo collegherà Power of Siberia al sistema di trasmissione del gas Sakhalin-Khabarovsk-Vladivostok.

Il risultato è che una molecola di metano estratta nel campo a gas di Okha all’estremo nord dell’isola di Sakhalin, potrebbe tranquillamente arrivare, sempre volando lungo le condotte in pressione, ad uno scaldabagno installato in periferia di Francoforte oppure ai fornelli dell’Osteria Etnea di Messina. Insieme ad altri 61 miliardi di metri cubi di gas all’anno.

Ma potrebbe anche accadere il contrario. Una volta unificata l’intera rete di gasdotti russa – una unica rete che si estenderà per undici fusi orari del globo – i russi potranno tranquillamente decidere come distribuire il loro gas tra l’Europa e la Cina.

Infatti, il 21 maggio 2014 le due compagnie di bandiera – Gazprom e la China National Petroleum Corporation (CNPC) hanno firmato un accordo per la fornitura di 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno alla Cina per una durata di trenta anni. Il gas supererà la frontiera russo-cinese con un tratto sotterraneo immerso nel fiume Amur. Per costruire il collegamento fra la rete russa e quella cinese, si è resa necessaria l’apertura di uno speciale checkpoint per permettere la libera circolazione di tecnici e materiali attraverso una delle frontiere più impenetrabili del mondo fin dai tempi della rottura fra Chruscev e Mao nel 1959.

In questi anni, abbiamo visto più gasdotti tracciati sulla carta e presentati al pubblico che tubi veri depositati sul terreno e collegati fra loro. Questo perché la realizzazione di una condotta richiede non solo grandi investimenti e grandi capacità tecniche, ma prima di tutto un accordo stabile e di lungo termine fra un fornitore ed un acquirente, la ragionevole certezza che ciascun governo sia solido e che un eventuale cambio al potere non butti all’aria i contratti stipulati per l’intero periodo di validità concordato, misure di sicurezza per proteggere tutto il percorso delle condotte e i necessari accordi internazionali. Più l’obbligatorio imprimatur della Commissione Europea se una delle firme sull’accordo appartiene ad un Paese membro dell’Unione.

Ecco perché nel mercato del gas diventano critiche le altalene diplomatiche fra la Russia e diversi Stati europei, i problemi interni di ciascuno Stato aggiunti a quelli che possono creare tutti gli altri attraversati dai tubi. Dall’Ucraina, sempre ai ferri corti con la Russia, alla Polonia, terreno di conquista della NATO, alla Turchia, nemica o amica a seconda delle convenienze.

Da parte nostra, oltre a non poter prendere impegni con nessuno sulla stabilità del nostro governo e tantomeno offrire serie garanzie che il prossimo inquilino di Palazzo Chigi non ribalti tutti gli accordi energetici in essere, abbiamo il problema insormontabile di 124 piante di ulivo che sbarrano la strada all’arrivo del gasdotto TAP in Puglia.

È chiaro che, di fronte a tutte queste rogne, la Russia si sia data da fare per aprirsi ad un immenso mercato alternativo come quello rappresentato da un miliardo e mezzo di cinesi e dalla loro industria.

Ma l’obiettivo di Mosca non si limita alla Cina: la rete, infatti, arriverà a collegare tutti i campi a gas siberiani con il terminale di liquefazione di Vladivostok. Da qui il gas, una volta liquefatto, può passare da un mercato subcontinentale al mercato globale. La liquefazione del gas, infatti, permette di rendere competitivo anche il trasporto su lunga distanza trasformando una economia di mercato locale in una mondiale. La Russia sarà quindi in grado di vendere il gas liquefatto al miglior offerente su tutto il pianeta invece di essere costretta a venderlo solo ai Paesi più prossimi.

Per questo – e anche per mantenere accesi i fornelli dell’osteria di Messina – sarebbe utile che l’Italia si attrezzasse per incentivare lo sfruttamento delle risorse di gas certamente presenti e non ancora sfruttate nell’Adriatico prima che le sfruttino altri. Ci sono problemi di rispetto ambientale, certo. Ma, visto che il gas è lì, è meglio che lo estragga Eni – membro del Global Compact LEAD dell’ONU per la sostenibilità ambientale – o che lo estraggano (e poi ce lo vendano) i nostri dirimpettai?

E guardando fuori dai confini italiani, non dimentichiamo che un serio contributo alla pacificazione della Libia da parte del Paese europeo geograficamente e storicamente più vicino, permetterebbe non solo di risolvere enormi problemi umanitari e buona parte della crisi dei migranti, ma permetterebbe anche ad Eni ed alla stessa Libia di poter tornare a sfruttare pienamente le grandi risorse energetiche presenti nel Paese e nelle sue acque.

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