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Fincantieri, l’offensiva di Macron e le responsabilità dell’Italia

Si disilludano coloro che avevano creduto in un Macron alfiere di una nuova Europa, immaginando un asse da costruire a tal fine con l’Italia. I primi atti del presidente francese, dalla posizione nei confronti di migranti alla questione libica, al potenziale esclusivismo del rapporto franco-tedesco unitamente al disinteresse per la questione del Fiscal compact e, per finire, alla vicenda Fincantieri segnalano che i caratteri tipici dei governi francesi influenzati dallo spirito di grandeur a prescindere dal loro colore si ripresentano, con l’aggiunta del concentrarsi in una sorta colbertismo spinto, se non di di nazionalismo economico, anche per distogliere l’attenzione dai complessi problemi economico-sociali che la Francia vive nei propri confini.

Nel caso dei cantieri di Saint-Nazaire, è facile rilevare i punti di debolezza della posizione francese: dall’inosservanza del fondamentale principio pacta sunt servanda alla dimenticanza, da parte del governo francese, di essere stato il precedente esecutivo, con il quale dovrebbe essere rispettata la continuità istituzionale, ad avere sollecitato la società italiana in relazione al fallimento della Holding sudcoreana Stx Offshore & Shipbuilding detentrice del 66,7% dei suddetti cantieri.

Ma, per continuare sui punti di debolezza, si omette anche di considerare, da parte dell’Eliseo, la numerosità delle acquisizioni, a opera di società francesi, di imprese italiane avvenute senza ostacoli di sorta: dalla Bnl a Parmalat , da Pioneer a Cariparma, dal settore del lusso (Fendi, Bulgari e così via) a Telecom, per non parlare delle partecipazioni come nel caso di Mediobanca con l’immancabile Bollorè.

In sostanza, per l’inaccettabile atteggiamento francese nella vicenda dei cantieri non vi sono attenuanti, a maggior ragione dopo le prospettive magnifiche e progressive che Macron aveva lasciato balenare con un mutamento delle politiche europee.

Ma vi sono anche colpe dei governi italiani. Quante volte si è voluto essere più realisti del re, ritenendo che fosse grave difendere, da parte del potere pubblico, con strumenti di mercato, importanti imprese italiane e, in qualche caso, banche? Chi non ricorda la canea che si scatenò nel 2005 a proposito dei progetti di acquisizione di due banche italiane rispettivamente da parte di due istituti esteri – uno dei quali finì poi spappolato da altre banche estere e un altro sonoramente bocciato dalla Cassazione – a cui secondo i soliti sapientoni si sarebbe dovuto dare subito via libera? Quando non si forma, nel tempo, una solida linea strategica e si predicano soltanto, senza passare ai fatti, innovazioni normative, qual è la famosa legge anti-scorrerie rimasta stabilmente nel cassetto, è naturale che si riduca il potere negoziale e che si accentui la possibilità che comportamenti non corretti come quello tenuto dai francesi nella circostanza si ripetano, conoscendo i limiti dell’interlocutore. In questo caso, si potrà verificare se, dopo le altisonanti dichiarazioni, il governo Gentiloni andrà fino in fondo o si produrrà in un revirement, magari affiancato da qualche limitata concessione ottenuta che, però, sarà strombazzata sul piano comunicazionale.

Esistono ragioni giuridiche e politiche valide dalla parte dell’Italia, pur nel sonno degli organismi europei che incredibilmente si manifestano come terzi, finora disinteressati. Se la Francia dovesse esercitare il diritto di prelazione, l’operazione salterà, ma si porrà necessariamente una fondamentale questione riguardante i rapporti economico-finanziari tra partner e il ruolo dell’Europa. Ex malo bonum: potrebbe essere l’occasione per un profondo chiarimento, sempreché il governo italiano abbia l’intenzione e la determinazione di chiederlo e di imporne la trattazione. Non si potrà certo comportarsi come nella famosa gag di Totò che prende schiaffi e ride perché questi sono diretti a un certo Pasquale che non è lui.

(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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