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Che fine fa il petrolio dello Stato islamico

In questi giorni di polemica tanto rovente quanto dolorosa sui soccorsi in mare nel Mediterraneo, cioè quello che abbiamo a lungo chiamato “mare nostrum”, c’è una notizia riferita dalla Guardia di Finanza scivolata rapidamente nel dimenticatoio. Eccola: “È possibile ritenere che le importazioni di petrolio da zone sottoposte al controllo delle organizzazioni terroristiche abbiano come terminali anche le principali raffinerie italiane”.

Si può immaginare che questo accada per caso? O non ci dice che mafiosi e corrotti costituiscono un blocco compatto, nel quale con diverse responsabilità si concorre a far sì che questo accada? Mi spiego. L’Isis produce, organizzazioni dedite al crimine organizzato commercializzano, e tramite qualche corrotto – magari nel senso di persona interessata ad un più marcato guadagno- quel petrolio entra nei nostri mercati. Insomma, non c’è scontro di civiltà nel mondo del malaffare, variegato e complesso al punto da andare da chi chiude per un momento un occhio a chi chiude per sempre gli occhi altrui.

Ma, se proviamo a immaginare quanto estesa sia o possa essere questa rete malavitosa, scopriremo facilmente che va dall’America Latina all’Asia, all’Africa, agli Stati Uniti, all’Europa. Questa connection tra appartenenti a “civiltà” diverse funziona bene e mai un’organizzazione di narcotrafficanti provenienti da Paesi di tradizione cristiana si chiede se alla fine avvantaggerà un’organizzazione di narcotrafficanti provenienti da Paesi di tradizione musulmana. O altro…

Questo dialogo funziona benissimo e strazia interi popoli, crea distruzioni, povertà, regimi. Molto spesso crea anche desertificazioni umane, nel senso che le popolazioni di ampi territori depredati sono costrette a fuggire. E qui comincia un altro problema. I fuggiaschi vengono percepiti come invasori, come sottrattori di ricchezza, e comincia la guerra tra poveri. Poveri doppiamente sfruttati dai malfattori, che usano senza scrupolo le risorse messe a disposizione dell’accoglienza per tenere come bestiame i fuggiaschi al fine di massimizzare i loro guadagni, e creare disordine e catene di sfruttamento nei quartieri di altri poveri, gli “indigeni”.

La politica a mio avviso rinuncia ad essere tale se accetta questo circuito, se si rifiuta per inseguire il “consenso” di combattere la vera battaglia, cioè quella di creare un’alternativa legale alla fuga di chi ha diritto e quindi un assorbimento ordinato, coordinato, integrato con le caratteristiche dei territori, in modo da consentirci di vedere che l’immigrazione è anche una ricchezza, come sottolinea dati alla mano il presidente dell’Inps.
Voglio dire che la politica deve ritrovare se stessa, cioè non deve inseguire il malessere, ma deve curarlo nel confronto esistenziale con la rete dei poteri criminali, che sono ovunque, in tutte le “civiltà”. Ecco che la teoria dello “scontro di civiltà”, usata come arma politica, si manifesterà come arma doppiamente suicida: è un’arma che ci farà perdere i nostri valori e anche il nostro benessere.

Voglio fare un esempio: tempo addietro un sedicente imam chiese di togliere il crocifisso da una scuola. Chi gli ha chiesto come mai molti suoi correligionari apprezzino tanto quel crocifisso da pagare per frequentare, numerosi, le scuole cristiane in numerosissimi Paesi musulmani? Andare dietro a costui non ha fatto il suo gioco?

Sono queste le semplici considerazioni che mi portano a dire che io oggi sto con Msf. Per buonismo sì, ma per verso me stesso, la mia piccola storia personale e la grande storia europea della quale mi sento parte. Quando a Genova stava per morire la sedicenne che aveva assunto metanfetamina ho letto che solo un immigrato ha contattato il 118. E questo mi dice che il dialogo tra civiltà può funzionare anche tra noi.

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