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Scuola, tutti i vantaggi di costo standard e voucher

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La storia d’Italia, come è noto, è intessuta di contraddizioni. Si parte da un Risorgimento che non è andato proprio come abbiamo studiato sui libri di storia, si prosegue con un cammino di unificazione condotto con la politica della “piemontesizzazione” che, se da una parte ha avuto il merito di uniformare velocemente l’apparato dello Stato, dall’altro ha provocato un malcontento diffuso e radicato dei cittadini nei confronti del Governo; si arriva poi al compromesso giolittiano che sfocia nel Ventennio, per giungere- dopo il trauma della Seconda Guerra – ai cinquant’anni di governo democristiano cancellato da Tangentopoli. Ci fermiamo qui. Ovviamente il cammino del Bel Paese ha avuto momenti molto positivi: si pensi solo alla stesura e all’entrata in vigore della nostra Costituzione, la migliore tra le carte costituzionali moderne, secondo il parere di giuristi insigni, non solo italiani. Si ritorna però, anche su questo fronte, nel campo delle contraddizioni: la nostra Costituzione garantisce al cittadino italiano il diritto importante della libertà di scelta educativa. Un genitore, di conseguenza, è riconosciuto libero di istruire ed educare il proprio figlio, scegliendo – all’interno dell’istruzione pubblica, cioè controllata e garantita dallo Stato – tra una scuola statale e una scuola non statale.

Questa importante affermazione della nostra Costituzione è stata ripresa nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che, all’articolo 26, afferma che i genitori “hanno diritto di priorità nella scelta di istruzione da impartire ai loro figli”. Lo stesso diritto è stato successivamente riaffermato dall’Unesco, nel 1966, e da una risoluzione della Comunità europea, nel 1984.  Tale principio, però, in Italia, è riconosciuto sulla carta ma non attuato: è una libertà solo teorica, perché per la scuola non statale il genitore deve pagare; se, dunque, bisogna pagare, la logica ci dice che non c’è libertà… infatti non è ammissibile affermare che è libero solo chi è ricco. Il dettato costituzionale, quindi, nel campo dell’istruzione non viene applicato; ciò ha generato negli anni una confusione linguistica all’interno del concetto di “scuola pubblica”, identificata con la scuola statale. Ma “pubblico” e “statale” non si identificano affatto…  nessuno oserebbe affermare, infatti, che gli ospedali San Raffaele o la Casa Sollievo della Sofferenza non siano strutture pubbliche! Però non sono statali. Di riforma in riforma scolastica, di governo in governo, si arriva così all’anno 2000.

Nel frattempo il sistema politico è cambiato, il pentapartito non esiste più; capo del Governo è Massimo D’Alema, Ministro della Pubblica Istruzione è Luigi Berlinguer, a cui la contraddizione del povero che non può scegliere sarà giustamente e coerentemente saltata all’occhio. Viene emanata a sua firma la legge 62/2000 che dà attuazione al dettato costituzionale, nel senso che si afferma che il sistema scolastico italiano è costituito da scuole pubbliche statali e da scuole pubbliche non statali, dette “paritarie”, non gestite dallo Stato. Queste ultime, per essere riconosciute come “pubbliche”, devono ottemperare ad alcune legittime richieste, come ad esempio avere un progetto educativo ed un Piano dell’Offerta Formativa, bilanci in regola e visionabili da parte di chi ne faccia richiesta, locali e attrezzature didattiche a norma, organi collegiali funzionanti, iscrizione aperta a tutti gli studenti, anche portatori di handicap, a patto che accettino l’offerta formativa, corsi completi, iniziati con la classe 1^, docenti abilitati, applicazione di contratti di lavoro nazionali.

L’Ente non statale (ad es. Comune, Provincia, Cooperativa, Comunità ebraica, Istituto Cattolico) che voglia aprire una scuola che rispetti i parametri sopra citati è gestore di una scuola pubblica paritaria inserita nel Servizio Nazionale di Istruzione; se, invece, lo stesso Ente non statale vorrà aprire una scuola senza rispettare quei parametri, sarà gestore di una scuola “privata”, i cui titoli di studio non sono riconosciuti dallo Stato. A noi interessa la prima ipotesi: Ente non statale gestore di una scuola pubblica non statale. Purtroppo le speranze per l’attuazione del principio costituzionale sono andate deluse: ancora una volta il principio affermato e ribadito non è stato attuato e il genitore che voglia avvalersi della scuola pubblica non statale si trova nella stessa situazione: deve pagare. Se non può farlo, o manda obtorto collo il figlio alla scuola statale, altrimenti è costretto a chiedere agevolazioni sulle rette alla scuola paritaria, agevolazioni che sono il frutto di una amministrazione oculata del Gestore. In alcune Regioni lungimiranti, a fronte di un ISEE basso c’è il consistente aiuto della dote scuola. Ma occorre la fortuna di nascere in una di queste Regioni.

Nel frattempo, i gestori di scuole pubbliche paritarie non profit non sono stati alla finestra a vedere i genitori poveri che si allontanavano, ma si sono dati da fare – attraverso un intelligente e puntuale controllo gestionale e amministrativo – sia per richiedere rette tali da consentire ad una famiglia media di poter accedere alla loro scuola, sia per reperire fondi e finanziamenti al fine di venire incontro alle famiglie più modeste, comprese quelle di immigrati terzomondiali, perché potessero liberamente mandare i propri figli nella scuola desiderata (i figli dei portinai, delle badanti e dei sagristi dei palazzi e delle chiese del Centro di Milano frequentano a grande maggioranza le scuole paritarie, insieme ai bambini benestanti dell’ultimo piano).

Sul fronte istituzionale, inutili sono stati i due richiami fatti all’Italia da parte dell’Unione Europea, perché ponesse fine a questa situazione realmente discriminante e si adeguasse ai Paesi dell’Unione. Con un certo strabismo costituzionale, l’Italia si è mostrata solerte nell’ascoltare i  più che legittimi richiami della UE in materia delle coppie di fatto; sulla libertà di scelta educativa dei genitori fa fatica a mantenere la stessa determinazione. Mistero! Infatti i Paesi europei (fatta eccezione per la Grecia) riconoscono, in diverse forme, il diritto di libertà di scelta educativa. Basti citare in tal senso il caso della laicissima Francia, dove lo Stato paga gli insegnanti delle scuole paritarie come quelli delle scuole statali e dove le rette sono bassissime, a motivo dei finanziamenti ricevuti anche dalle amministrazioni locali. In Italia la situazione è l’esatto opposto: lo Stato ha stanziato nell’anno scolastico 2015/2016 49 miliardi e 418 milioni di euro per la scuola statale, a fronte dei 499 milioni per la scuola paritaria.

Detto in altri termini: ogni studente della scuola statale riceve euro 6.403.528 (senza contare i contributi dei comuni, delle province e delle regioni); lo studente della scuola paritaria riceve euro 532, 06. Ciò che manca alla quota necessaria per la sua istruzione lo deve mettere la famiglia, se può. Altrimenti deve “scegliere” la scuola statale. Non è pensabile, né ammissibile che lo Stato rinunci ad occuparsi del diritto all’istruzione scelta liberamente di quasi un milione di studenti che frequentano la scuola paritaria: se così fosse, ci troveremmo di fronte alla crisi della democrazia e all’anticamera del regime di Stato. Se poi questo milione di studenti si riversasse sulla scuola statale si verificherebbe il collasso del sistema. Infatti le scuole paritarie consentono allo Stato un risparmio di 6 miliardi di euro annui. Per inciso: il genitore che decide di iscrivere il proprio figlio presso una scuola paritaria, paga due volte il costo della scuola: è tenuto al pagamento della retta che va ad aggiungersi al pagamento delle tasse che servono a mantenere la scuola statale di cui però ha deciso di non avvalersi. Secondo i dati OCSE 2014 l’Italia è il Paese in cui vi è la maggiore differenza tra risorse spese per le scuole statali e risorse spese per le scuole paritarie.

La logica conseguenza è che sono sempre meno in Italia gli allievi delle scuole paritarie: nell’anno scolastico 2015 – 2016 la percentuale degli iscritti alle scuole paritarie si assestava attorno al 10,64%, con ricadute negative sociali, economiche e culturali assai gravi.  La chiusura di una scuola pubblica paritaria che ha lavorato seriamente sul territorio per decenni, se non per secoli, praticamente a costo zero per lo Stato, e che è stata rappresentata da ex alunni còlti e competenti, rappresenta un dramma per le famiglie che l’hanno scelta, per i docenti che vi hanno lavorato, per il territorio in cui è stata profondamente radicata.  Un attento contribuente potrebbe chiedersi: ma, almeno, tutti quei soldi spesi per la scuola statale portano al miglioramento dell’apprendimento? Risposta: il sistema dei contributi sopra descritto non porta a un sistema scolastico efficiente. Infatti secondo gli esiti dei test PISA 2015, l’Italia si colloca al 23° posto per le abilità scientifiche e al 24° posto per le abilità di lettura. Tutto questo significa che ci si trova davanti all’ennesimo caso di cattiva gestione delle risorse dello Stato, cioè a un impiego non efficiente del denaro del contribuente.

Negli anni, poi, si sono susseguite riforme e controriforme della scuola, per tentare di migliorare il servizio reso e amministrare le risorse economiche in modo più oculato. L’ultima, in ordine di tempo, è stata la riforma che è confluita nella legge 107/2015: non è questo il luogo per farne una valutazione, lo abbiamo già fatto in altre sedi; partita secondo le migliori intenzioni, tale riforma si è risolta in una assunzione-monstre di migliaia di precari storici che sono stati immessi in ruolo ma che, invece di andare in classe, sono rimasti in sala professori, ad aspettare di essere chiamati per una supplenza o a progettare – spesso inutili – corsi di ampliamento dell’offerta formativa. La scuola, ancora una volta, è stata impiegata come ammortizzatore sociale, per…rimediare all’improprio uso di ammortizzatore che ha creato negli anni i migliaia di precari!… Riflessione del “popolo”: come mai un laureato in ingegneria non è certo di lavorare, se non dopo un’attenta valutazione del datore di lavoro, mentre un laureato in filosofia avrebbe la certezza di lavorare – per giunta con minorenni – senza un accurato controllo della sua professionalità?

In questa situazione, l’unica alternativa possibile alla paralisi del sistema scolastico pubblico, statale e non statale, è la definizione di un costo standard per alunno, identificato sulla base di dati reali, presi da esempi virtuosi di gestione. Sulla base della definizione del costo standard, le famiglie ricevono dallo Stato un voucher spendibile liberamente o per la scuola pubblica statale o per la scuola pubblica paritaria. Lo Stato non sarà più unico gestore e controllore di se stesso, ma diventerà garante della libertà dei cittadini di educare i propri figli. Ci vuole il coraggio di andare oltre posizioni ideologiche ormai superate, che non hanno più alcuna ragione di essere, guardando al bene, anche economico, del Paese e non a quello delle categorie, delle singole associazioni, dei partiti, perché si giunga all’attuazione di un diritto fondamentale dell’uomo per il bene della collettività. I cittadini onesti attendono.

Guarda il video: “ La scuola e i costi standard”

 

 

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