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Vi spiego le differenze fra le capriole di Salvini e le piroette del vecchio Pci

Ho un amico che, di cognome, fa Colombo. Racconta che da alcuni mesi è tormentato da incubi notturni. Sogna di essere una statua imbrattata di vernice e, a volte, pure decapitata.

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I più apprezzati commentatori hanno notato che i fratelli De Rege, invitati a Cernobbio, hanno girato alla larga dalla questione euro, concentrando il loro talento su altri temi. In generale, questa evoluzione è stata salutata con un sospiro di sollievo dall’establishment ormai pronto ad accontentarsi di ciò che passerà il convento nelle urne. Ma fu “vera gloria”? Cambiare opinione, anche in politica, è un segno di realismo e di intelligenza. Ma il percorso che porta a questo mutamento deve essere spiegato e reso comprensibile (anche senza prendersi la briga di fare autocritica). Non è credibile che la linea politica diventi una sorta di cravatta da accompagnare al vestito che si indossa a seconda degli ambienti frequentati.

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Del resto, l’establishment nostrano è sempre stato così. Finge di credere ai cambiamenti che gli fanno comodo. Ci fu un tempo in cui quattro parole in croce pronunciate dai leader del Pci venivano salutate come una svolta irreversibile. “Fine della spinta propulsiva”, “profondo dissenso”, “ombrello protettivo della Nato” e via sussurrando. Ma almeno quelle parole pronunciate a mezza bocca erano il frutto di lunghe riunioni, sollevavano infiniti dibattiti e mettevano a nudo struggenti passioni. A Luigi Di Maio è bastata una telefonata a Genova; a Matteo Salvini un po’ di fiuto politico.

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