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Russiagate, ecco chi maligna tra i clintoniani contro Facebook

Dice su Twitter Laura Rosenberger, direttrice dell’Alliance for Securing Democracy del think tank German Marshall Fund di Washington, e soprattutto consulente di politica estera di Hillary for America (il comitato che ha sostenuto la corsa della candidata democratica alle presidenziali americane): “Aspetta un attimo, Facebook sta proteggendo la privacy degli utenti russi fasulli? Abbiamo perso la testa?”. È l’onda nemmeno troppo lunga delle dichiarazioni pubbliche con cui il capo dello staff di sicurezza del social network ha ammesso che ci sono stati dei soldi, probabilmente arrivati dalla Russia, investiti in un campagna di interferenza indiretta per sostenere le posizioni politiche più di destra calcate durante la corsa elettorale dal repubblicano Donald Trump. Facebook s’è rifiutato di fornire le copie di quegli annunci e i dati relativi alle commissioni congressuali che stanno indagando sul Russiagate.

Dopo aver negato per mesi l’esistenza di questo genere di cose, Facebook ha accettato di parlarne a porte chiuse con i congressisti, ma ha messo in chiaro che rilasciare informazioni sugli utenti – pur ammettendo che nella gran parte dei casi si tratta di profili falsi creati per sostenere la campagna  che in gergo tecnico viene definita “trolling” – perché facendolo violerebbe i principi di privacy su sui il social network basa il rapporto con gli utenti: “Stiamo cercando di essere il più trasparenti possibile, ma ci sono alcune restrizioni su ciò che possiamo rivelare nelle nostre politiche” ha detto un portavoce dell’azienda di Palo Alto a Yahoo News. La posizione presa da Facebook non è nuova: in altre occasioni aziende che si occupano di social network hanno fatto resistenze per impedire che gli investigatori accedessero a loro informazioni riservate; è stato per esempio il caso di indagini su persone che avevano commesso atti terroristici.

Il punto su cui alcuni polemizzano, però, è che adesso l’aspetto aziendale è superato dal fatto che quegli account che sono stati parte dell’operazione di trolling sono falsi, ossia non c’è nessuna persona fisica dietro. A comandarli pare sia stata l’Agenzia di Ricerca su Internet, un’impresa che ha base a San Pietroburgo ampiamente descritta come una “fabbrica di troll” e guidata da Evgeny Prigozhin, un ricco uomo d’affari ed ex ristoratore che è così vicino al presidente russo da essere conosciuto come il “cuoco di Putin”. Per esempio: in un articolo uscito sul New York Times, con dati raccolti grazie alla consulenza della società specializzata FireEye, è stato individuato un falso-utente proveniente da Harrington, in Pennsylvania. Il tipo invitava i contatti che si era accalappiato a visitare il sito DCLeaks dicendo: “Questi ragazzi mostrano la verità nascosta su Hillary Clinton, George Soros (finanziere diventato il topoi dei cospirazionisti mondiali, ndr) e altri leader americani. Visitate il sito web di #DCLeaks. È davvero interessante!”. Il post dell’utente fake era dei primi di giugno, di lì a poco DCLeaks sarebbe diventato, insieme a WikiLeaks, uno dei siti in cui uscirono le informazioni hackerate sottratte al Partito Democratico – secondo il piano di interferenza russo ricostruito dalle intelligence americane.

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