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Perché Trump fa accordi con i democratici

Donald Trump si sente frustrato nel suo rapporto con i repubblicani (il suo partito) e inoltre vive la West Wing come una costrizione fisica e mentale. C’è questo background da cui non si può prescindere quando si cerca di comprendere il motivo (o i motivi, meglio) che hanno portato il presidente a chiudere unilateralmente (senza consultare il suo partito) un accordo con i democratici per alzare il tetto del debito fino a dicembre – mentre i repubblicani volevano un tempo maggiore per potersi concentrare di più su altre questioni legislative – e poi a impostare quanto meno un programma potenzialmente condiviso con i Dem su un piano per l’immigrazione. Due allineamenti che, si promette da entrambi i lati, saranno forieri di altri futuri.

Trump è un uomo che cerca il deal, l’accordo (memo: il suo libro più famoso si intitola “The Art of Deal”). A tutti i costi, ed è più interessato a un successo generale che alla coltivazione dei dettagli ideologici di una legge (e i Dem l’hanno capito). Dalla sua ha la forza di aver vinto le elezioni senza la necessità di essere fedele a nessuno se non a se stesso: e di certo non deve, e non vuole, essere fedele a un partito politico.Ma allo stesso tempo sa che il GOP  da lui non potrà prescindere almeno fino alle prossime elezioni di metà mandato (novembre 2018). Su questo si muove e manda messaggi all’odiato establishment del partito che lo ha sostenuto: se voi non state con me, io non ho problemi a giocare con l’altra sponda. Anche qui nota tecnica: secondo l’amministrazione corrente del nuovo anno fiscale, scattata dopo il 30 settembre, Trump avrà bisogno di far passare le leggi principali, come la riforma fiscale o l’agognato piano sanitario, con almeno 60 voti dei senatori (salvo nuove deroghe), e questo vuol dire andare incontro all’opposizione filibustiera Dem, perché i repubblicani sono solo 52 (meglio i deal che l’ideologia).

Per il momento incassa i primi risultati: e soprattutto per la prima volta dall’inizio della sua presidenza, ha una buona copertura stampa, i repubblicani più moderati non sono più imbarazzati dal suo ruolo, e tutti i i collaboratori più intimi ne approvano la linea generale.

Inoltre mantiene, comunque, un grande appeal sul suo elettorato: secondo un sondaggio redatto da Wall Street Journal e NBC, ha ancora dalla sua il 98 per cento dei repubblicani che lo hanno votato sia alle primarie che alle elezioni. Lo zoccolo duro dei sostenitori per il momento non è stato scalfito dall’inevitabile inquinamento che le necessità di governo hanno prodotto nei claim puro-pupulistici che ne hanno segnato la corsa (Trump, di fatto, ha avuto difficoltà nel mantenere tutte le principali promesse elettorali dei primi sei mesi, quasi nessuna è compiuta al momento, ma i suoi sostenitori per ora sono magnanimi). E anche i media più conservatori, come Fox (declinazione: “Fox and Friends” o Sean Hannity) non l’hanno scaricato: perfino il provocatore ultra-conservatore Rush Limbaugh gli ha lasciato il beneficio del dubbio sulle mosse sull’immigrazione uscite da una cena di lavoro con i leader Dem.

Secondo Jonathan Swan di Axios, che attualmente è uno tra i più informati giornalisti politici americani, sull’attuale linea di Trump hanno un peso da non sottovalutare pure le policy introdotte nella Casa Bianca dal nuovo capo dello staff, l’ex generale John Kelly. Una delle prime cose che Kelly ha fatto è stata limitare l’accesso allo Studio Ovale: chiunque entra deve prima passare per la sua autorizzazione. Soprattutto: qualsiasi tipo di informazione che arriva sulla Resolute Desk deve prima finire sotto il processo interno di “vetted”, verifica, voluto da Kelly.

Risultato: Trump non legge più certa stampa – o meglio: solo certa stampa – ultra conservatrice, e non ha più in mano le liste dei tweet dei suoi supporter su cui basare le proprie azioni/reazioni. Nel caso, dopo la (gioviale) cena (cinese) con i democratici di inizio settimana, senza la dieta informatica di Kelly sarebbe stato infiammato sull’hashtag #AmnestyDon con cui i più facinorosi hanno criticato l’incontro — il termine “amnistia” è quello cui viene definito dagli ultra-conservatori il decreto obomaniano sui Dreamers — e magari acrebbe reagito d’istinto vedendo che alcuni intransigenti hanno messo online i video in cui bruciavano i cappellini MAGA perché si sentono traditi dal presidente. Invece Trump ha cercato via Twitter di edulcorare la situazione per renderla più potabile ai suoi fan, ma niente passi indietro.

Questo meccanismo di moderazione voluto da Kelly, e approvato da molti degli aiutanti più moderati al lato del presidente (per esempio gli Ivankners o Gary Cohn), ha fatto sì che le voci più nazionaliste su questioni come i Dreamers per esempio, fossero isolate lontano dal Prez: è il caso per esempio dell’ex stratega Steve Bannon, messo del tutto fuori dal giro della Casa Bianca (adesso il suo Breitbart si fa voce dell’ala più intransigente, titola “You Have Become the Swamp”, sei diventato la palude, dove la palude è il simbolo del potere corrotto di Washington che secondo uno dei claim da campagna lui avrebbe “drenato”, ma dietro a Bannon c’è una complicata strategia del caos), e di Stephen Miller, pensatore politico rimasto l’anima più nazionalista interna. Pure la guardia del corpo personale Keith Schiller è stato allontanato, così che tutti gli sms che i più conservatori inviavano a lui affinché arrivassero alle orecchie del presidente, al momento sono sostituiti dalle lettura più pacate che il segretario personale Rob Porter pone sulla scrivania presidenziale dopo un’attenta valutazione dell’iper pragmatica Kirstjen Nielsen, da lungo tempo collaboratrice di Kelly, nominata come vice capo di gabinetto, e considerata la vera forza di fuoco che dà all’ex generale la possibilità di azione.

In definitiva: Trump dipende molto da ciò che lo circonda, se nuota tra il veleno diventa velenoso, se tra il miele si addolcisce. Dopo che i democratici hanno diffuso la notizia di un accordo sui Dreamers raggiunto con il presidente, lui ha provato a riprendere la questione con qualche tweet al vetriolo per non scoraggiare la base, ma la via della (momentanea) moderazione era stata già solcata.

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