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Pregi e difetti delle proposte di Bruxelles sulla web tax

L’accelerazione c’è stata. Complice l’alleanza di Francia, Germania, Italia e Spagna, la web tax europea prende sempre più forma. Al punto che, come anticipato anche da Formiche.net, sul tavolo adesso ci sono tre ipotesi concrete su cui i governi dovranno dire la loro e anche abbastanza in fretta perché la presidenza estone di turno dell’Ue vuole concludere il dossier entro il proprio semestre, quindi entro la fine dell’anno.

LE TRE IPOTESI

Una tassa sul fatturato, una ritenuta sulle transazioni digitali e un’imposta sui messaggi pubblicitari. Sono queste le proposte che il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis, (in foto con Padoan), ha messo nero su bianco così come richiesto dall’Ecofin di sabato scorso a Tallin e in vista del summit digitale dei capi di Stato e di governo che dovrebbe dare una spinta politica al dossier il prossimo 29 settembre. Il principio su cui si muove la Commissione Europea è sempre lo stesso: le società dovrebbero pagare i tributi dove svolgono la loro attività economica effettiva. La soluzione al problema della tassazione dei giganti del web andrebbe trovata a livello globale, assieme all’Ocse, oppure approvando in fretta la CCCTB (Common Consolidated Corporate Tax Base, su cui si lavora da più di 11 anni), la direttiva che punta a creare una base imponibile comune per le imprese, e in un secondo momento ad armonizzare l’aliquota. In mancanza di questo ecco le tre ipotesi che sono state messe sul tavolo dei governi europei.

LA TASSA SUL FATTURATO

La tassa sul fatturato (che poi è la richiesta dell’Italia insieme ad altri nove Paesi) porterebbe a modificare un principio consolidato della tassazione d’impresa, cioè colpire solo i guadagni. Bisogna però, ha spiegato Dombrovskis, “aggiustare la regola della residenza fisica permanente”, sviluppata in altri tempi, e una strada può essere quella di pensare ad una “residenza virtuale permanente”, come aveva proposto la presidenza estone. Ovvero, le aziende dovrebbero prendere una “residenza virtuale” in ogni Paese in cui hanno una “presenza digitale significativa”. Per venire poi tassati come le altre imprese. È tutto molto complicato e “la tassa sul fatturato” se fatta sic e simpliciter rischia di essere incompatibile con i trattati internazionali su tariffe e commercio di beni e servizi e rischia di costruire una duplicazione dell’Iva.

 LA RITENUTA SULLE TRANSAZIONI DIGITALI

Una tassa autonoma, su base lorda, su determinati pagamenti fatti a fornitori di beni e servizi commercializzati sulla Rete. È l’ipotesi amata dalla presidenza estone ma è molto vacua e soprattutto non si comprende bene il confine della transazione digitale e le categorie interessate perché così facendo ogni singola operazione dovrebbe essere tassata e non si colpirebbero solo i giganti del web ma tutto il commercio elettronico.

LA TASSA SULLA PUBBLICITÀ

Anche la tassa della pubblicità (così come quella sulle transazioni digitali) è una strada poco percorribile. Lo ha spiegato bene il professor Eugenio Della Valle, docente di diritto Tributario all’Università la Sapienza, in un intervento sul Sole24Ore: “Entrambe le misure si pongono in contrasto con il principio ripreso nelle totalità delle convenzioni contro le doppie imposizioni adottati dagli Stati membri, secondo cui la realizzazione dei profitti realizzati da imprese non residenti si giustifica fintantoché queste ultime siano dotate di una presenza fisica nello Stato o quantomeno di un agente che concluda contratti per conto loro”.

LO STUDIO UE

Insomma, non sarà facile trovare una soluzione che possa essere accolta egualmente da tutti gli Stati dell’Unione. Nel frattempo ciò che colpisce è anche lo studio che la Ue ha presentato per motivare la necessità di una tassa europea contro i colossi del Web. “Nel periodo fra il 2008 e il 2016, i dati sul commercio al dettaglio nell’Ue hanno mostrato un aumento annuo di fatturato pari all’1%, mentre i cinque principali operatori di e-commerce hanno realizzato crescite di fatturato del 32% all’anno” – ha spiegato Dombrovskis.

Tutto ciò conferma che le imprese digitali devono essere sottoposte a un’equa tassazione. Si tratta di un problema non di poco conto: in media, le imprese che hanno un modello di business digitale sul mercato interno sono soggette a una aliquota effettiva dell’8,5%, che è meno della metà rispetto alle imprese tradizionali (20,9% per quelle domestiche, 23,2% per quelle internazionali); la disparità si deve al fatto che le imprese digitali si basano in misura rilevante sui cosiddetti cespiti intangibili, per loro natura difficili da valutare, e beneficiano di sgravi fiscali. Le imprese digitali transfrontaliere sono in grado di ridurre ulteriormente le tasse, poiché i loro intangibili sono molto mobili. Non solo: sfruttando i regimi fiscali più favorevoli, le imprese digitali possono portare i propri oneri fiscali a zero. Tuttavia, queste aziende sfruttano le reti, le infrastrutture e le istituzioni dello Stato di diritto esistenti negli Stati dell’Ue, senza pagare tasse da nessuna parte – ha fatto notare ancora il numero due della Commissione Europea.

IL CASO EBAY E LA COOPERAZIONE RAFFORZATA

Che l’Unione faccia sul serio lo ha capito anche eBay che ha avviato una petizione per dire no alle nuove imposte sulle vendite online che avrebbero “ricadute gravi per le piccole imprese, ma anche per gli stessi consumatori“. Se nessuna delle tre proposte avanzate dalla Ue dovesse vedere la luce si tornerebbe – spiega una fonte ministeriale italiana – alla soluzione “del meccanismo della cooperazione forzata”. Anche se gli esempi che sono andati in questa direzione non sono stati molto positivi, basta ricordare la Tobin tax che non sta funzionando ed è ferma da anni in lunghe discussioni tecniche. Ma è chiaro che con la web tax non si gioca più e una soluzione va trovata nel più breve tempo possibile.

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