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Smart Power alla Casa Bianca. I primi 100 giorni di Biden secondo Dottori

Nonostante qualche concessione al dibattito ideologico negli Usa, i primi cento giorni di Joe Biden alla Casa Bianca hanno visto un ritorno dello smart power. Dalla Cina alla Russia, dall’Afghanistan all’Iran, il pragmatismo si riaffaccia a Pennsylvania Avenue. Il bilancio di Germano Dottori

Lo scorso 30 aprile Joe Biden ha trascorso alla Casa Bianca il suo centesimo giorno da Presidente degli Stati Uniti: una data simbolica, che offre il pretesto per azzardare un primo giudizio sul suo operato. Sono del resto già molti coloro che si sono cimentati in questo esercizio, con risultati assai più variegati di quanto non sia apparso dalla lettura del grosso della stampa italiana, piuttosto appiattita su un tono celebrativo.

In realtà, le valutazioni espresse riflettono la forte polarizzazione che ha caratterizzato negli ultimi anni la politica americana, con i sostenitori dell’agenda liberal cavalcata da Biden che si dichiarano soddisfatti della sterzata impressa dal Presidente statunitense alla condotta del proprio paese e i conservatori che invece tendono ad esprimere apprezzamenti più cauti.

Il dibattito merita di essere arricchito. Innanzitutto, va riconosciuto a Biden di aver tenuto fede alle proprie promesse in questi suoi primi tre mesi di governo. Il Presidente ha fatto proprio quanto ci si attendeva da lui.

In campo internazionale, abbiamo osservato elementi di continuità e discontinuità rispetto al recente passato, senza che tuttavia si registrassero vere sorprese. In un suo articolo pubblicato su Foreign Affairs prima di essere eletto, Biden aveva ad esempio anticipato la propria volontà di porre un termine alle “guerre infinite” in cui l’America era coinvolta.

Non può quindi stupire la decisione presa di ritirare le truppe americane dall’Afghanistan entro il prossimo 11 settembre. Biden ha paradossalmente superato persino Trump, che aveva accettato la raccomandazione degli stati maggiori di mantenere almeno un limitato presidio militare ai piedi dell’Hindu Kush: il rimpatrio sarà invece completo, riguarderà anche gli alleati ed è già cominciato.

A cambiare è stato altro: la cornice complessiva in cui questo rimpatrio è stato inserito e gli obiettivi che l’amministrazione al potere dal 20 gennaio scorso si è data. Non si tratta di elementi trascurabili: è infatti venuta meno la priorità accordata al perseguimento della stabilità internazionale, che era stata centrale nella visione di Trump assieme all’intransigente rispetto delle sovranità nazionali, di cui era parte anche il riconoscimento della legittimità di ogni interlocutore.

Con Biden, il focus è tornato invece ad identificarsi con la trasformazione del pianeta: una missione che normalmente comporta iniziative più o meno energiche, soprattutto quando sia in gioco il rispetto dei diritti umani.

È nuovamente in auge il cosiddetto “Smart Power”, che fu una cifra essenziale della postura adottata ai tempi di Obama e consiste nell’affidare il compito di promuovere la democrazia all’estero a forze e soggetti emanazione delle società civili locali, naturalmente sostenuti a distanza, ma in modo sistematico, dalla diplomazia americana.

In teoria, si tratterebbe di un approccio eticamente superiore, improntato all’idealismo politico tanto quanto quello di Trump era di matrice realista. Nella pratica, però, l’impulso che ne deriva tende a diffondere l’instabilità ed accresce il rischio di guerra.

Il Mediterraneo non si è ancora ripreso dalle Primavere Arabe, che pure tanto entusiasmo avevano inizialmente suscitato e le cui conseguenze noi europei stiamo ancora pagando. Ed è proprio questa la maggiore incognita che si è materializzata in questi primi cento giorni di amministrazione Biden.

A Trump era stato rimproverato uno stile negoziale ruvido, specialmente nelle fasi che precedettero i suoi incontri con Kim Jong-un, ma il tycoon non si spinse mai fino al punto di bollare come assassini le controparti di cui avrebbe potuto avere bisogno. Ed alla fine i risultati sono stati spettacolari: per la prima volta un Presidente americano ha varcato il confine nord-coreano. Soprattutto, sono arrivati gli accordi di Abramo, al raggiungimento dei quali era stato decisivo l’apporto di una personalità molto controversa come quella del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.

A distanza di poco più di tre mesi, tutto questo sembra incredibilmente lontano. Per facilitare la ripresa del dialogo con l’Iran, in sé un obiettivo positivo, si sono sdoganati gli Houti, precedentemente considerati terroristi, e si è messa in vario modo sotto pressione l’Arabia Saudita, con effetti significativi sul processo di riconciliazione tra arabi ed israeliani, che è stato sottoposto a forti tensioni, al punto di spingere il governo di Netanyahu a considerare la possibilità di proteggerlo stringendo vere e proprie alleanze politico-militari con i paesi che ne sono parte e la stessa corte di Riad. Sono state aperte pericolose crepe nel rapporto con alcuni partner cruciali di Washington in Medio Oriente.

Quanto alla Turchia, ancorché si sia provveduto a riconoscere la natura genocidaria delle violenze fatte dagli ottomani agli armeni, è stata incaricata di condurre le trattative che dovranno preparare il ritorno dei Taliban al potere a Kabul, forse dopo averne promosso la riconfigurazione in movimento affiliato alla Fratellanza Musulmana. D’altra parte, che l’amministrazione Biden potesse essere più favorevole di quella precedente all’Islam Politico era stato previsto da diversi analisti.

I problemi maggiori, tuttavia, sono affiorati in Europa. Anche se va riconosciuto al nuovo Presidente il merito di aver rilanciato il rapporto transatlantico, non può essere trascurato il fatto che sia stata generata una crisi di maggiori proporzioni con la Russia in Ucraina, che ha comportato il revival delle vecchie logiche della deterrenza nucleare.

Fortunatamente, non è successo nulla, anche perché la prudenza ha infine prevalso e gli americani hanno rinunciato al potenziamento della loro presenza navale nel Mar Nero, permettendo ai russi di ritirare a loro volta le ingenti forze che avevano accumulato alle porte del Donbass.

Biden e Putin dovrebbero vedersi in giugno. Speriamo che sia il principio di una possibile svolta verso un nuovo pragmatismo quanto mai necessario, che renderebbe i secondi cento giorni del nuovo Presidente statunitense sicuramente più fecondi dei primi, purtroppo contrassegnati da una lievitazione complessiva degli attriti tra le maggiori potenze.

L’ultima riflessione la merita infine l’assetto dato alle relazioni con la Cina. Si ha un bel dire che sotto Biden non sia cambiato nulla. In realtà, invece, le discontinuità ci sono e paiono per il momento notevoli. Certamente, l’amministrazione Biden sta censurando il comportamento di Pechino sul versante dei diritti umani, specialmente in relazione alla situazione degli Uiguri e a quella in atto ad Hong Kong.

Rispetto a Trump, l’irrigidimento della narrativa è innegabile e nei primi incontri bilaterali di questi mesi sono volati gli stracci. Ma non è credibile che si punti a destabilizzare un paese che ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti agendo su situazioni che interessano poche decine di milioni di persone. Si tratta di punture di spillo.

È vero che sono in atto anche significativi movimenti militari nelle acque adiacenti alle coste cinesi. Però non si parla più di decoupling e neanche di ostacolare lo sviluppo tecnologico cinese con misure di limitazione degli scambi, che invece erano lo strumento cui Trump aveva fatto ricorso per rallentare il rafforzamento futuro delle capacità della Repubblica Popolare nei settori in cui si deciderà chi comanda alla metà di questo secolo. Oggi si afferma invece che si competerà, cercando di far meglio del rivale, senza cercare di danneggiarlo. È un passo indietro notevole.

La constatazione di questa novità induce a sospettare che possa essere mutato proprio l’obiettivo di fondo perseguito da Washington. Mentre Trump voleva convincere i cinesi ad accettare una propria sfera d’influenza in Estremo Oriente rinunciando alle ambizioni globali, Biden forse pensa ad una partnership in una specie di leadership condivisa, prendendo atto della compenetrazione commerciale e finanziaria tra i due giganti ed accontentandosi di controllare la crescita geopolitica di Pechino, ovviamente senza cooptare in questo schema la Russia, che invece sarebbe indispensabile a questo disegno e viene al contrario inopinatamente sospinta nelle braccia della Cina.

Lo scorcio iniziale del mandato di Biden ha certamente risentito di qualche pregiudizio ideologico cui non è stato estraneo l’aspro confronto interno ancora in atto in America, che ha finora impedito di esplorare l’approfondimento di alcune direttrici di dialogo. Con il tempo, però, questi aspetti potrebbero cedere il terreno ad un maggiore realismo. Se così sarà, com’è auspicabile, anche questa Presidenza potrà rivelarsi un successo.

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