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A che punto è la riforma della Difesa

Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali

La legge sul personale militare, approvata a gennaio dal Parlamento per attuare la riforma varata nel 2012, non migliora la capacità operativa delle Forze Armate, e quindi la disponibilità dello strumento militare per la politica estera e di difesa dell’Italia.

FATTA LA LEGGE…
La legge di riforma dello strumento militare approvata nel 2012 aveva una ratio ben precisa: ridurre le spese in personale e infrastrutture non essenziali per la capacità operativa delle Forze Armate, visti i continui tagli al bilancio della difesa, al fine di concentrare i pochi fondi a disposizione sulle necessità di addestramento e manutenzione – i costi di “esercizio” – di equipaggiamenti, ricerca e sviluppo tecnologico. Insomma, razionalizzare e snellire per essere efficaci ed efficienti.

L’obiettivo era passare da una situazione per cui nel 2013 il 66% del bilancio viene assorbito dagli stipendi, il 25% dagli investimenti, e solo il 9% dall’ esercizio al modello virtuoso di ripartizione dei fondi per la difesa adottato da altri Paesi europei: 50% per il personale, 25% per gli investimenti, 25% per l’esercizio.

A tal fine, la legge del 2012 prevedeva numeri ben precisi: entro il 2024, 33 mila militari e 10mila dipendenti civili del Ministero della Difesa in meno, e una contrazione complessiva del 30% delle strutture territoriali anche tramite soppressioni e accorpamenti.

Non solo, ma il taglio al personale doveva concentrarsi su ufficiali e sotto-ufficiali, per mantenere una base composta da soldati giovani impiegabile in operazioni militari. Infatti, non si tratta solo di efficienza dello strumento militare, ma di sopravvivenza della stessa capacità operativa delle Forze Armate, ovvero della possibilità per l’Italia di condurre o partecipare a missioni funzionali alla propria politica estera e di difesa e, in ultima analisi, alla protezione e promozione degli interessi nazionali.

… MANCA L’ATTUAZIONE
Spirito e lettera della legge del 2012 erano chiari, come era chiaro che la legge avrebbe comportato per il personale militare e civile della difesa misure dolorose, ma necessarie per un interesse generale – il mantenimento dell’operatività delle Forze Armate.

L’ultimo decreto legislativo, approvato dal Parlamento il 28 gennaio 2014, doveva dare attuazione concreta alla legge di riforma, indicando dove, come e quando effettuare i tagli al personale del Ministero della Difesa. L’incipit della legge va in questa direzione, indicando il numero di unità che le singole Forze Armate dovranno avere entro il 2024, numero che rispecchia il taglio deciso nel 2012 tramite una riduzione di organico di 13.400 unità per l’Esercito, 8.575 per l’Aeronautica e 4.325 per la Marina, con obiettivi precisi quanto a diminuzione di ufficiali e sotto-ufficiali.

Ma il diavolo è nei dettagli. Il problema infatti è il modo indicato dalla legge per arrivare a questa futura composizione del personale militare. La prima versione del testo prevedeva sostanzialmente due strade: l’estensione del collocamento dell’Aspettativa per Riduzione Quadri (Arq) per il personale non più indispensabile, ed il trasferimento di quadri ad altre pubbliche amministrazioni che potessero impiegarli – quali forze di polizia, ministeri della giustizia e degli interni, enti locali, ecc.

La prima opzione è stata duramente criticata durante l’iter del decreto, sia per la pressione del personale interessato sia per la preoccupazione che questa decisione sembrasse contraddittoria rispetto alla generale spinta ad aumentare l’età pensionabile, ed è stata quindi sostanzialmente cancellata. Ciò comporterà tra l’altro che diversi uffici non potranno essere chiusi o accorpati, e quindi continueranno a costare allo stato in termini di spese di funzionamento (affitto, utenze, manutenzione, ecc).

La seconda opzione, il trasferimento ad altre amministrazioni, è stata di fatto completamente affossata durante l’iter parlamentare, stravolgendo così la ratio dell’intera legge. Infatti, quello che doveva essere un trasferimento imposto d’ufficio – a parità ovviamente di qualifica e trattamento economico – è stato reso impossibile da un semplice cavillo: il “previo consenso dell’interessato” al trasferimento medesimo.

Consenso che ha scarsissime possibilità di essere espresso poiché, a livello individuale, comporta il rimettersi in gioco cambiando ufficio, compiti, superiori e forse anche città dove si lavora. Poiché lo stato non si è assunto la responsabilità di imporre la decisione del trasferimento nel nome dell’interesse generale, e il singolo individuo legittimamente fa il suo interesse particolare, molto probabilmente i trasferimenti saranno, bene che vada, qualche migliaia.

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Alessandro Marrone è ricercatore presso l’Area Sicurezza e Difesa dello IAI.

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