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Cosa combina l’Arabia Saudita con Saudi Aramco?

In uno dei suoi momenti più complicati, messa alla prova da una crisi dinastica, dagli effetti della strategia dei prezzi bassi del greggio e da tensioni crescenti con l’Iran sciita, l’Arabia Saudita medita la quotazione in Borsa del suo gigante petrolifero, Saudi Aramco, la società statale che è il maggior produttore di oro nero a livello globale. Una scelta che potrebbe aprire nuovi scenari interni e che avrà, forse, conseguenze energetiche e geopolitiche.

LE PAROLE DEL PRINCIPE MOHAMED

La decisione se procedere o meno verrà presa nei mesi a venire, ha annunciato ieri un po’ a sorpresa, intervistato dall’Economist, uno degli astri nascenti della politica del Regno wahabita, il principe Mohamed bin Salman (qui il ritratto di Formiche.net), secondo in linea di successione a re Salman. “Penso che sia nell’interesse del mercato saudita e di Aramco. Si tratta di una cosa che stiamo studiando”, ha detto il giovane, classe 1985, attualmente ministro della Difesa del suo Paese.

LE IPOTESI

Il principe ha raccontato al settimanale britannico che l’ipotesi di quotare Aramco è stata discussa di recente in “due riunioni ad alto livello”. Secondo alcuni funzionari, ha riportato Reuters, “le opzioni vanno dalla quotazione di alcuni degli impianti petrolchimici e di altre società ‘downstream’ alla vendita di azioni della parent company”. Al momento a Riad “si sta discutendo sulla quotazione di una prima parte della società”, forse “il 5%”. Nel tempo, prosegue l’agenzia di stampa “questa quota potrebbe aumentare ma la monarchia vuole continuare ad esercitare il controllo sulla società”.

LO SCENARIO

Da qualsiasi punto la si guardi, spiega Bloomberg, quello di Aramco è un caso peculiare, forse unico al mondo. Si tratta di una delle imprese “più importanti del globo”, ben al di sopra di corporation come Apple, che pure “è valutata all’incirca 600 miliardi di dollari”. Basandosi “semplicemente sulle sue riserve di petrolio – 260 miliardi di barili, circa 10 volte di più dell’ultra-major Exxon Mobil – e con una stima conservativa di circa 10 dollari al barile”, la compagnia “potrebbe valere più di 2,5 trilioni” di banconote verdi. Una cifra stratosferica. Ad ogni modo, rimarcano gli addetti ai lavori, la quotazione interverrebbe in una delle fase più difficili del mercato petrolifero degli ultimi anni. I prezzi alla vendita dell’oro nero hanno appena toccato nuovi minimi da 11 anni, in un quadro di generalizzato eccesso di offerta che secondo molti osservatori è stato favorito proprio dalla forte produzione scelta dall’Arabia Saudita, primo produttore mondiale.

LA STRATEGIA DI RIAD

Dietro il crollo del greggio, analizza Giordano Stabile sulla Stampa, ci sono diverse valutazioni. Una fra tutte “la sfida” lanciata dall’Arabia Saudita “allo shale oil americano”, che però “potrebbe avere come conseguenza anche la caduta di uno dei pilastri dell’ economia mondiale, i petrodollari”. Il dollaro “gode… di una posizione di privilegio, perché chi vuole comprare greggio deve procurarsi biglietti verdi. I Paesi del Golfo hanno ancorato le loro monete alla valuta Usa e sono stati protetti dalla V flotta americana”. Tuttavia, “l’argomento – scrive Stabile – non è più un tabù nei Paesi del Golfo che soffrono per il calo delle entrate statali e sono stretti in una gabbia intollerabile dal cambio fisso delle monete locali con il dollaro. La tentazione è di seguire l’ esempio del Kazakhstan, che l’ anno scorso ha lasciato fluttuare il suo «tenge» e firmato i primi contratti per la vendita di petrolio non denominati in dollari, sotto consiglio interessato della Russia”. Questi precedenti, uniti alla strategia saudita dei prezzi bassi, potrebbero però incrinare l’asse Riad-Washington. “Secondo gli analisti regionali – spiega il quotidiano diretto da Maurizio Molinari – hanno bisogno di un barile a 80 dollari per mantenere gli investimenti e continuare a produrre nei prossimi anni”. Ben al di sopra, dunque, dei livelli attuali, a cui Riad non sembra voler per ora rinunciare.

GLI EFFETTI SUL MERCATO

Visto il peso di Riad, che effetti potrebbe avere questa scelta sui mercati? “Per il momento l’impatto sarà molto limitato”, sottolinea a Formiche.net Nicolò Rossetto, esperto di mercati energetici e membro dell’Osservatorio energia dell’Ispi. “Probabilmente la classe dirigente saudita è convinta che non si tornerà in poco tempo alle alte quotazioni del greggio di qualche anno fa. E quindi ha deciso, seppur senza perderne il controllo, di riflettere sulla quotazione di Aramco. Se lo facesse otterrebbe tre cose: darebbe alla compagnia maggiore trasparenza; farebbe cassa, visto che attualmente, anche a causa del basso costo del petrolio, ha un deficit di diverse centinaia di miliardi di dollari; e infine inizierebbe a riformare e diversificare il proprio sistema interno, troppo assistenzialista e orientato ai petrodollari”.

LA COMPETIZIONE CON L’IRAN

Una scelta, aggiunge Rossetto, fatta a suo modo anche dall’Iran, avversario di Riad su questo e su altri terreni. Teheran, il cui rientro nel mondo degli idrocarburi indebolisce ulteriormente la posizione saudita, rileva l’esperto, “ha da poco elaborato nuove forme di contratto per attirare gli investimenti di compagnie estere. Contratti che vanno nella direzione di un mercato petrolifero che sarà influenzato da un prezzo basso del barile per ancora qualche anno”. Da qui la necessità di una ristrutturazione del settore non solo per i sauditi.

LE RAGIONI INTERNE

L’intera questione, rileva Cinzia Bianco, analista esperta di Medio Oriente e Mediterraneo per la Nato Defense College Foundation, non può essere slegata da altri nodi, come quello interno. “La mossa annunciata dal principe Mohamed – commenta con Formiche.net – è anche un modo per depoliticizzare, almeno in apparenza, la gestione del petrolio nel Paese. Non credo si tratti di un modo per fare cassa. In un posto dove tutto è controllato dallo Stato, c’erano altre cose da privatizzare, anche parzialmente, prima di giungere a questo. Piuttosto l’Arabia Saudita viene spesso additata di usare il greggio come arma politica, anche perché Aramco è diretta estensione della casa reale e dunque della leadership. Mettere la compagnia di Stato sul mercato potrebbe spingere, esternamente, a non vedere più questo forte legame e ad addebitare al Regno alcune scelte discutibili, come quella che sta portando a un crollo del prezzo del petrolio. Ma potrebbe essere solo un cambiamento di facciata, perché, di fatto, pare che il controllo rimarrà di fatto in mano statale”. La quotazione di Aramco potrebbe poi intrecciarsi anche con i problemi dinastici che pervadono Riad. “Metter sul mercato il gigante petrolifero del Paese, seppur limitatamente a quote di minoranza, depotenzierebbe di molto la carica di ministro del petrolio, che ha sempre avuto molto potere nell’esecutivo. Ciò darà maggiore potere al sovrano, che vedrà accentrato su di sé un potere ancora maggiore”.

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