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Che cosa cela lo sbuffo di Nunzio Galantino sulle unioni civili

Quella “sconfitta per tutti” annunciata da monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, per definire il ricorso alla fiducia da parte del governo per l’approvazione finale della legge sulle unioni civili alla Camera è una rivincita, per quanto silenziosa, del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei. Che per avere non preteso ma soltanto auspicato che al Senato, dove allora si esaminava la legge, non si ricorresse alla fiducia si prese una mezza smentita proprio da Galantino. Una smentita che risultò di rinforzo alle stizzite e persino irriguardose reazioni del presidente del Consiglio e dei presidenti delle Camere, anche di quella allora non interessata al passaggio della legge: la presidente cioè di Montecitorio Laura Boldrini.

Tutti allora si erano levati a protestare per una presunta, intollerabile ingerenza delle gerarchie ecclesiastiche negli affari politici italiani. E tutti, proprio grazie alle distanze prese da Galantino, ad attribuire al Papa in persona una netta disapprovazione delle parole di Bagnasco. Di cui risultò persino annullata un’udienza programmata in Vaticano.

Si fa presto, evidentemente, anche oltre Tevere a cambiare idea.

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Si fa presto a cambiare idea anche a Palazzo Chigi, dove l’improvvisa decisione concordata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi col presidente della Repubblica Sergio Mattarella di affidare la guida del ministero dello Sviluppo Economico a Carlo Calenda, dopo le dimissioni imposte dalla vicenda giudiziaria di Tempa Rossa a Federica Guidi, per quanto non indagata, è stata una rivincita dei diplomatici della Farnesina. Che nei mesi scorsi avevano protestato anche rumorosamente per essere stati scavalcati col politico Calenda nella nomina del nuovo rappresentante dell’Italia presso l’Unione Europea, al posto di un ambasciatore.

La crisi apertasi al vertice del ministero dello Sviluppo Economico ha fornito insomma l’occasione a Renzi di ripensarci, richiamando a Roma Calenda e ripristinando a Bruxelles la presenza di una feluca, proposta – si è tenuto a precisare per tornare alla piena normalità – dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Si tratta dell’ambasciatore Maurizio Massari, appena richiamato dal Cairo per le complicazioni intervenute nei rapporti con il governo egiziano per le indagini sulle torture mortali subite in Egitto dal giovane studente italiano Giulio Regeni.

Un errore ripara l’altro, come chiodo schiaccia chiodo. A facilitare il ripensamento ha certamente contribuito la competenza di governo acquisita da Calenda, prima della breve missione a Bruxelles, come vice ministro nello stesso dicastero di cui ora ha assunto la titolarità.

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Si è rivelata d’incerta interpretazione, non solo in termini di ripensamento, l’ipotesi prospettata dal segretario Renzi del congresso anticipato del Pd, previsto statutariamente per l’anno prossimo. Alla sfida, qual è subito apparsa agli osservatori forse più maliziosi, per un regolamento finale dei conti con la dissidenza interna sull’onda di un successo nel referendum autunnale sulla riforma costituzionale, altri hanno contrapposto l’interpretazione di una concessione. Che sarebbe stata studiata apposta dal presidente del Consiglio per strappare alle minoranze una moratoria delle polemiche interne su natura, limiti e partecipazione al referendum, allo scopo proprio di propiziare una vittoria referendaria.

Una moratoria di cinque mesi – quanti ne dovranno passare sino ad ottobre, quando si andrà alle urne appunto per dire sì o no alla riforma con un quesito unitario appena definito legittimo dai competenti uffici della Cassazione, alla faccia di chi persegue ancora il cosiddetto spacchettamento – è francamente troppo lunga per essere credibile o realistica. Basterà pochissimo per ravvivare lo scontro, ammesso che lo si volesse davvero ridurre.

Ma, a parte queste considerazioni, l’anticipazione del congresso sia in caso di vittoria referendaria di Renzi sia in caso di sconfitta sarebbe sempre una sfida, più che una concessione. In caso di vittoria sarebbe la già accennata resa dei conti. In caso di sconfitta, con le dimissioni del premier anche da segretario del partito, sarebbe la sfida, appunto, a trovargli un successore praticamente dalla mattina alla sera, con uno scatenamento prevedibile di ambizioni le più disparate e contraddittorie. E in un quadro politico di così grande confusione da far tremare i polsi anche al più temerario dei candidati. Ciò potrebbe essere una ragione in più –deve aver pensato Renzi- per indurre gli elettori ancora incerti, che sono tanti, a votare nel referendum a suo favore

Della efficacia di questo ragionamento ha dato atto a Renzi anche Eugenio Scalfari rilevando sulla sua Repubblica l’assenza di alternative e “un’abilità che deve essergli ampiamente riconosciuta”. Ma la sortita di Scalfari merita anche un discorso a parte.

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