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Ecco i rischi a 5 stelle del no di Renzi a cambiare l’Italicum

Gli effetti della botta elettorale subita nelle urne dei ballottaggi comunali si avvertono anche nel linguaggio di Matteo Renzi. Che, pensando al pericolo ormai costituito per lui anche dal referendum costituzionale d’autunno, cavalcato sino all’altro ieri con minacciosa baldanza, è passato dall’immagine del “lanciafiamme”, adoperata dopo il primo turno delle elezioni amministrative per annunciare drastici interventi sulla periferia del partito, a quella decisamente più familiare e conciliante delle “lasagne della nonna”. Un’immagine – ha detto il segretario del Pd e presidente del Consiglio – “emozionante” perché aiuta a “coniugare insieme i valori della nostra comunità con la capacità di aprirsi al nuovo senza scadere nel nuovismo”.

Ciò sembra cosa ben diversa dalla pratica della rottamazione, almeno per come la si è vista sino ad ora ed è stata sperimentata, per esempio, da Massimo D’Alema: il ribelle eccellente che ha reagito all’emarginazione, pur tra smentite e precisazioni, strizzando l’occhio, diciamo così, a quella che è diventata trionfalmente il primo sindaco donna e grillina della plurimillenaria Roma. E si è deciso solo all’ultimo momento a dire, dopo avere deposto nell’urna la scheda nella sua sezione elettorale, di avere votato “come sempre” disciplinatamente per il candidato del partito, non so francamente fino a che punto convincendo il povero Roberto Giachetti. Che era stato liquidato dall’ex presidente del Consiglio in uno studio televisivo, non al tavolino di qualche bar, già prima che cominciasse la campagna elettorale, come un uomo inadatto al Campidoglio. Dove pure il vice presidente della Camera, di origine orgogliosamente radicale, aveva giù lavorato come capo di Gabinetto del sindaco Francesco Rutelli, di origine anche lui radicale, nel senso pannelliano della parola.

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Dopo avere invitato la turbolenta e comunque divisa minoranza del Pd non a proteggersi dal fuoco del suo lanciafiamme, liquidato comunque come una sciocchezza non solo dal candidato sconfitto nella corsa al Campidoglio ma anche dal presidente del Pd, Matteo- pure lui- Orfini, il presidente del Consiglio ha voluto mandare un messaggio rassicurante anche ai grillini vittoriosi in 19 dei 20 ballottaggi comunali ai quali sono riusciti a partecipare. Anche a costoro, a cominciare naturalmente dalle sindache, o sindachesse, di Roma e Torino, Virginia Raggi e Chiara Appendino, elette nel segno non della protesta ma del “cambiamento”, Renzi ha fatto gli auguri dovuti da ogni buon capo di governo assicurando la sua collaborazione. Che invece era sembrata per nulla scontata durante la campagna elettorale, fra le proteste, per esempio, proprio della Raggi e dell’Appendino, allarmate anche da una dichiarazione ritenuta troppo allusiva e minacciosa di Maria Elena Boschi, la ministra di fiducia del presidente del Consiglio.

Il quadro politico e amministrativo del Paese è ormai quello che è, proiettato verso un tripolarismo consolidato o tendente a svilupparsi in un bipolarismo di fatto in cui i grillini, aiutati da quello che fu il centrodestra berlusconiano, sconfiggono il Pd. A Renzi, che sognava invece a livello nazionale una partita elettorale a due, con un ballottaggio fra il Pd e un nuovo centrodestra incapace di essere aiutato da Grillo a prevalere, non resta che prenderne atto.

Il ballottaggio delle prossime elezioni politiche, anticipate al 2017 o ordinarie, cioè alla scadenza del 2018, potrebbe riproporre le esperienze comunali di Roma e Torino, dove a contendere la vittoria al Pd sono stati appunto i grillini, che hanno vinto col contributo antirenziano di pezzi consistenti del centrodestra, in una trasfusione di voti a senso unico perché a Milano, per esempio, i pentastellati si sono ben guardati dal soccorrere e far vincere il berlusconiano Stefano Parisi nella partita col renziano Beppe Sala.

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La consapevolezza di questo quadro di tendenza dovrebbe indurre a una certa prudenza sia quello che fu il centrodestra sia Renzi.

Di là però Matteo Salvini, che pure è uscito anche personalmente malconcio dalle urne, doppiato a Milano da Forza Italia e costretto alla sconfitta in una città simbolo della Lega come Varese, non sembra avere alcuna intenzione di rinunciare alle sue posizioni. E Silvio Berlusconi, in convalescenza, costringe ancora gli ex o potenziali alleati a sfogliare la margherita sui suoi propositi di guida o di ritiro, con un passo “indietro” o “di lato”, secondo una vecchia e furbesca distinzione del suo amico di una vita come Fedele Confalonieri.

Di qua, cioè dalla parte di Renzi, non vi sono ancora segnali concreti di apertura alle richieste che gli vengono sia dai suoi alleati di centro, sia dal centrodestra sia dalle minoranze del Pd di cambiare la nuova legge elettorale della Camera per assegnare il premio della maggioranza non alla lista ma alla coalizione uscita delle urne, al primo o al secondo turno, con più voti. Cosa peraltro che, almeno da sinistra, ma forse anche da destra, potrebbe rendere al presidente del Consiglio più facile la vittoria nel decisivo referendum d’autunno sulla riforma costituzionale. Decisivo, perché è stato lo stesso Renzi – si vedrà se più coraggiosamente o più imprudentemente – ad annunciare il ritiro dalla politica e il “ritorno a casa” in caso di sconfitta.

Se confermato, il rifiuto del presidente del Consiglio di cambiare la “sua” legge elettorale, per quanto abbia recentemente dichiarato di non esserne “innamorato”, preferendole in teoria il vecchio “Mattarellum” aggiornato, con i collegi uninominali del 1994, potrebbe – ahimé – confermare quello che hanno già sperimentato la sinistra e la destra. La sinistra varando nel 1993, dopo il referendum elettorale contro il sistema proporzionale, una legge -appunto il Mattarellum, dal nome del suo relatore a Montecitorio, che fu l’attuale presidente della Repubblica – destinata a far vincere l’anno dopo Berlusconi. E lo stesso Berlusconi nel 2005 approvando il malfamato “Porcellum”, con le modifiche impostegli all’ultimo momento dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per la regionalizzazione del premio di maggioranza al Senato, destinato a far vincere l’anno dopo la nuova coalizione guidata da Romano Prodi. Fu una vittoria effimera, in verità, consumatasi in soli due anni, ma pur sempre vittoria.

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