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Il mio ricordo di Aldo Moro

A cento anni dalla nascita, avvenuta il 23 settembre del 1916 a Maglie, e a 38 anni e più dalla morte, avvenuta a Roma il 9 maggio del 1978, quando fu ucciso nel bagagliaio di un’auto dai brigatisti rossi che lo avevano sequestrato 55 giorni prima, numerose sono state le rievocazioni di Aldo Moro. Che ha rappresentato, suo malgrado, una delle figure più tragiche nella storia d’Italia proprio per le circostanze della sua fine.

Gli fanno compagnia il Re Umberto I, ucciso a Monza da un anarchico il 29 luglio 1900; il deputato socialista Giacomo Matteotti, sequestrato e ucciso dai fascisti 10 giugno 1924; il deputato ed ex ministro liberale Giovanni Amendola, morto in Francia il  7 aprile 1926 per i postumi di un’aggressione fascista subita in Toscana l’anno prima; Antonio Gramsci, tra i fondatori del Pci, arrestato dai fascisti nel 1926, quando era ancora deputato, e lasciato marcire in carcere sino a morire in una clinica romana il 27 aprile 1937; i fratelli liberal socialisti Carlo e Nello Rosselli, fatti uccidere dai fascisti in Francia  il 9 giugno 1937 e l’ex presidente socialista del Consiglio Bettino Craxi.

In verità, Craxi morì il 19 gennaio 2000 nel letto della sua casa di Hammamet, in Tunisia, per cause naturali, ma solo formalmente tali. Egli fu ucciso piuttosto dalla impossibilità di curarsi adeguatamente per aver dovuto fuggire da una magistratura con lui troppo severa in Patria. E non lo dico io, che gli sono stato amico e perciò sospetto di partigianeria, ma Giorgio Napolitano. Che da presidente della Repubblica, dieci anni dopo la morte, scrisse una nobilissima e coraggiosa lettera alla vedova Anna per definire, testualmente, di una “severità senza uguali” il trattamento giudiziario, e io aggiungerei anche mediatico e politico, riservato al marito per avere partecipato al fenomeno generalizzato del finanziamento illegale dei partiti.

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Nell’elenco dei politici italiani morti tragicamente non metto Benito Mussolini perché quella fine, al netto del deprecabile scempio fatto a Milano del suo cadavere, e di quelli dell’amante e dei gerarchi fascisti catturati a Dongo nel 1945 mentre cercavano di fuggire dall’Italia, se l’andò a cercare con una odiosa dittatura, un’altrettanto odiosa guerra insieme con Hitler e quel fantoccio di governo di Salò che contribuì solo ad aggravare con una lotta fratricida il bilancio del conflitto: altro che attenuare, come si disse, il peso dell’occupazione nazista.

 

Solo l’idea di accomunare la morte di Moro e degli altri che ho elencati a quella di Mussolini mi farebbe rabbrividire, anche se qualcuno a destra storcerà il muso: quelli, per esempio, che nel 1994, sedici anni dopo l’assassinio di Moro, applaudirono o fecero finta, come Silvio Berlusconi, di non sentire Gianfranco Fini che indicava in Mussolini “il più grande statista del secolo”. Poi ci meravigliamo della fine fatta dal centrodestra in Italia.

Tutto va storicizzato, per carità: anche il consenso di cui ad un certo punto godette in Italia Mussolini, e documentato da autori incorsi per questo in polemiche ingiuste. Anche l’allora presidente della Camera Luciano Violante spese parole di comprensione per “i ragazzi di Salò” che sbagliarono in buona fede. Ma non va dimenticato e tanto meno cambiato, anzi travisato il bilancio finale del fascismo.

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Anche di Moro, nel centenario della nascita, si è tentato di esagerare, sia pure per ben altri versi, con la storicizzazione, riproponendolo come il sostenitore non di una tregua parlamentare fra la sua Dc e il Pci, nel momento in cui entrambi non avevano i numeri per fare un governo senza l’aiuto dell’altro, ma come regista di un governo di comune partecipazione.

Moro fu sicuramente l’uomo più a sinistra della Dc, più ancora delle correnti formalmente di sinistra, per quanto fosse di formazione e abitudini moderate. Era già capo di un governo con i socialisti quando usava ancora mandare gli auguri di Natale e Capodanno con biglietti diversi ai professori universitari di ruolo e ai loro assistenti.

Egli riuscì più di altri nel suo partito a guadagnarsi l’interesse e il rispetto dei comunisti, pronti a votarlo per il Quirinale alla fine del 1971 se il suo partito lo avesse candidato e non gli avesse invece preferito prima Amintore Fanfani e poi Giovanni Leone. O se lui si fosse candidato contro il proprio partito, come lo incitò inutilmente a fare quella volta l’amico Carlo Donat-Cattin dicendogli brutalmente che “per fare figli bisogna fottere”, e non immaginando che cosa anche in questo campo avrebbe riservato il futuro, con le inseminazioni artificiali.

Il rapporto dialogante che Moro seppe stabilire col Pci non gli fece tuttavia mai cambiare idea sul carattere che, sul piano elettorale, egli chiamava “alternativo” fra i due partiti.

Quando Enrico Berlinguer, alla fine del 1977, timoroso di logorarsi troppo con l’astensione verso il governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, tentò di “forzare” la situazione, come lo stesso Moro, una volta sequestrato dalle brigate rosse, scrisse al suo amico Tullio Ancora, fu proprio lui – Moro, presidente della Dc – a contrastarne la richiesta di qualche ministro da scegliere fra gli indipendenti di sinistra eletti al Parlamento nelle liste del Pci. E a concedergli solo una trattativa sul programma per passare dall’astensione alla fiducia, dall’anticamera alla camera della maggioranza.

Fu sempre Moro che, a trattativa conclusa, impedì al segretario della Dc Benigno Zaccagnini e ad Andreotti di concedere ai comunisti le teste di due ministri democristiani avvertiti dal Pci come troppo ostili: il già ricordato Carlo Donat-Cattin e Antonio Bisaglia. La cui conferma, da lui voluta rivendicando il diritto e il dovere della Dc di scegliersi da sola la propria classe dirigente, creò tali malumori alle Botteghe Oscure che la mattina del 16 marzo 1978, alla presentazione del nuovo governo alle Camere, il voto di fiducia dei comunisti non era più scontato. Esso arrivò ugualmente solo per l’emergenza senza precedenti creatasi proprio quella mattina col sequestro di Moro, avvenuto fra il sangue della sua scorta mentre egli si recava a Montecitorio per sentire il discorso programmatico di Andreotti.

Per attribuire a Moro, a dispetto di questi fatti incontrovertibili, il progetto di un governo comune di democristiani e comunisti si dovette attendere una intervista di Scalfari al presidente della Dc che aveva  l’insormontabile inconveniente di essere postuma, non supportata da alcuna registrazione o testimonianza, per quanto Scalfari avesse contato su quella, invece mancata, di Corrado Guerzoni, portavoce di Moro.

 

La storia – è chiaro – non si può fare così. E neppure infilando nella tasca di Moro una copia dell’Unità, come il suo stesso partito consentì disinvoltamente di fare allo scultore della statua che lo ricorda nella sua Maglie. Anche se adesso, in verità, una parte di quella Dc, pur fatta più di nomenclatura che di elettorato, si ritrova con l’ex Pci in una stessa formazione politica, il Pd, e si riconosce nel giornale fondato da Antonio Gramsci, diretto ora tuttavia dal sagace vignettista Sergio Staino. Che ha appena esordito felicemente alla guida della storica testata capovolgendo la vecchia concezione della sinistra: secondo lui “non la premessa”, fatta cioè di ideologia e dogmatismo, “bensì il risultato quotidiano del confronto e dell’impegno”. Ma per leggere queste parole sono dovuti trascorrere 38 anni dalla morte di Moro ed è dovuto crollare il comunismo 27 anni fa col muro di Berlino.

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