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Come evitare il default della Cassa previdenziale delle Forze armate?

Lo scorso 13 ottobre in una non tanto segreta riunione tra lo Stato Maggiore della Difesa e i delegati del Cocer (una specie di sindacato dei militari) c’è stato l’annuncio del possibile default di 6 dei 7 fondi che costituiscono il patrimonio della Cassa di previdenza delle Forze armate che ha gettato nel panico le migliaia di iscritti che con le loro contribuzioni obbligatorie hanno finanziato, e finanziano la Cassa per un importo complessivo che si è attestato nel 2015 a poco più di 90 milioni di euro.

Nel corso della riunione lo Stato Maggiore ha proposto tre soluzioni: il “cash pooling”, cioè il differimento dei pagamenti di due o quattro anni rispetto alla data di effettiva maturazione del beneficio, oppure l’elevazione al 3% degli importi delle contribuzione e dei rendimenti. Di contro gli esperti del Cocer, oltre ad aver chiesto di entrare a far parte del cda dell’Ente, hanno proposto di passare da un sistema di contribuzione a carico degli iscritti ai singoli Fondi e della conseguente liquidazione di tipo retributivo, come avviene attualmente, a quello contributivo cioè in base ai contributi effettivamente versati.

Queste soluzioni ovviamente sono dei palliativi che non tengono conto né delle evoluzioni dello stato giuridico ed economico intervenute o annunciate e quindi future, né della contrazione numerica delle unità di personale iscritto ai singoli Fondi, destinata a crescere in modo esponenziale nei prossimi anni a causa della legge di revisione dello strumento militare nazionale, approvata dal Parlamento nel 2012, che sta velocemente facendo passare le Forze armate da un modello a 190mila ad uno più snello a 150mila. Una cura dimagrante che trascina verso il basso il numero degli iscritti ai Fondi e quindi delle entrate economiche. Una diminuzione che rappresenta il principale motivo dell’allarme sull’insostenibilità dell’attuale modello di gestione economica finalmente suonato in questi giorni dallo stato maggiore della difesa ma che era già scritto nero su bianco nei bilanci delle singole Casse già al momento della loro unificazione gestionale (inalterata l’indipendenza economica).

Il rischio concreto nelle soluzioni proposte, oltre a non eliminare il possibile default che verrebbe solamente spostato più avanti nel tempo, potrebbe anche essere quello di creare inutili e ulteriori situazioni di criticità o di disparità di trattamento tra categorie di personale che si andrebbero ad aggiungere a quelle già ben conosciute dal legislatore e mai risolte nonostante la rivisitazione normativa operata nel 2010, oppure, nella malaugurata ipotesi di una mutazione del sistema di contribuzione nel senso auspicato dal Cocer, di un possibile danno economico per coloro che prossimi al pensionamento rischierebbero di vedersi liquidare le indennità o assegni spettanti con importi nettamente inferiore a causa del diverso sistema di calcolo basato sulla effettiva contribuzione.

Eppure la soluzione del problema è sempre stata sotto gli occhi di tutti e ora, a parte le considerazioni svolte dalla Corte dei Conti in sede di controllo eseguito sulla gestione finanziaria della Cassa per gli esercizi finanziari 2013-2014 che tra le altre ha richiamato l’attenzione della ministra della Difesa “sull’esigenza di un’organica riconsiderazione del sistema di calcolo delle indennità, finalizzata ad assicurare l’equilibrio gestionale, ed idonea a garantire corrispondenza tra le contribuzioni degli iscritti nel corso della carriera e le relative prestazioni previdenziali”, non va dimenticato che lo scopo principale della Cassa di previdenza, ancora prima dell’unificazione, è il supporto economico dei militari in stato di comprovata necessità. L’Ente a tal fine prevede, come prima dell’unificazione, la possibilità di interventi di credito a favore degli iscritti. Tuttavia tale possibilità è attualmente sospesa in attesa dell’approvazione da parte del Ministro della Difesa, ora la Pinotti, del nuovo regolamento dell’attività creditizia.

La Cassa, quindi, è costretta ad investire parte dei proventi delle contribuzioni, che nel 2015 hanno superato di poco i 90 milioni di euro, solo in titoli di Stato. Il valore totale del conto titoli al 31 dicembre del 2015 era di 700,3 milioni di euro. Nel bilancio approvato lo scorso 9 maggio dal cda è scritto chiaramente che gli investimenti sono stati fatti “mediante il ricorso alle aste principali e al mercato secondario dei titoli di stato BTP” con un incremento, rispetto al 2014, di 46 milioni di euro. Se invece di comprare titoli del debito pubblico che hanno registrato un tasso medio all’emissione che, negli ultimi 5 anni, è variato dal 3,61 del 2011 all’attuale 0,52, la Cassa avesse avuto la possibilità di investire gli stessi importi nell’attività di credito a tasso agevolato fissato, ad esempio, a un terzo del tasso di interesse effettivo globale medio (nel 2011 dell’11,98%, ora 10,32%) sicuramente il trend negativo che ha destato tanto allarme e preoccupazione non si sarebbe registrato.

La responsabilità di quanto sta accadendo non va quindi ricercata solamente nelle decisioni dell’attuale cda della Cassa di previdenza delle forze armate ma, principalmente, nell’azione o a volte nell’inerzia del ministero della Difesa.

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