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Riforma dirigenza pubblica, tutte le divergenze fra Renzi e Madia

L’idea del governo ora è di rimandare tutto a dopo il referendum. Parliamo della riforma della dirigenza pubblica, che il Parlamento ha approvato con legge delega poi promulgata dal governo con un decreto legislativo lo scorso 25 agosto, che sta provocando un’alzata di scudi da parte dei grand commis di Stato (oggi la sigla Unadis ha indetto uno sciopero). La bocciatura del decreto da parte di Consiglio di Stato, secondo cui buona parte del provvedimento è da riscrivere, ha provocato molto nervosismo all’interno dell’esecutivo.

Il ministro Marianna Madia, inferocita per il giudizio negativo di Palazzo Spada, avrebbe proposto a Matteo Renzi di rinviare l’approvazione finale del decreto legislativo a dopo il referendum, prorogando il termine di esercizio della delega, che scade il 27 novembre prossimo, così da prendere tempo e tentare di ricucire un dialogo con i dirigenti sul piede di guerra. Altri membri dell’esecutivo, tra cui lo stesso premier, vorrebbero invece accelerare per non correre il rischio di vedersi annullare la riforma dalla vittoria del No. Insomma, o si spinge sull’acceleratore per chiudere la partita prima del 4 dicembre, con grande disappunto degli alti dirigenti, oppure si rimanda per riaprire una mediazione. Il tutto poi va visto anche alla luce dello scontro tra alcuni ministri e la guerra in corso da mesi tra i funzionari parlamentari e governativi nei confronti dei dirigenti pubblici.

Il testo in questione è solo parzialmente opera della Madia: messo a punto in prima battuta dall’ufficio legislativo della Funzione Pubblica – al cui vertice fino a qualche mese fa c’era il figlio del presidente della Repubblica, Bernardo Mattarella – è stato giudicato da Palazzo Chigi troppo “morbido” e “garantista”. Così la presidenza del Consiglio l’ha avocato a sé e in parte riscritto, con norme più severe: a metterci mano è stata Antonella Manzione, l’ex capo dei vigili urbani di Firenze che Renzi ha voluto con sé a Palazzo Chigi (poi nominata al Consiglio di Stati, dove non è ancora entrata in carica), con l’aiuto di consulenti e avvocati amministrativi esterni, tra cui Lorenzo Casini, consigliere giuridico di Dario Franceschini. Uno “scaricabarile” di cui alcuni rappresentanti sindacali hanno avuto modo di assistere in un recente incontro con i vertici del dicastero della Funzione pubblica, secondo le indiscrezioni raccolte da Formiche.net.

La riforma prevede il cosiddetto ruolo unico: tutti i dirigenti pubblici di prima e seconda fascia finiscono in un contenitore senza più differenze da cui poi Governo, Regioni e Comuni pescano secondo le necessità. Così, però, si annullano le competenze e un dirigente di prima fascia può finire in piccole amministrazioni e un segretario comunale arrivare a Palazzo Chigi o in un dicastero importante, in barba alle professionalità specifiche maturate sul campo.

Il dirigente pubblico in scadenza di mandato finisce, dunque, in questo gran calderone, con lo stipendio dimezzato e l’obbligo di partecipare a cinque “interpelli” l’anno (i concorsi interni per i ruoli che si rendono disponibili). Se non viene scelto, si fa un secondo anno di limbo e poi può essere licenziato senza giusta causa. A decidere chi fa cosa, secondo la riforma, sarà una “commissione nazionale di valutazione” composta dal presidente dell’Anac (Raffaele Cantone), dal capo del personale del Viminale, dal segretario generale della Farnesina, dal Ragioniere generale dello Stato e da due esperti scelti dal governo. Un lavoro immane. Inoltre, sono tutte figure nominate direttamente dalla politica, così l’esecutivo di turno potrà scegliere i dirigenti più fedeli e metterli nelle posizioni apicali della pubblica amministrazione. Tutto ciò, secondo i sindacati dei dirigenti, vìola gli articolo 97 e 98 della Costituzione che garantiscono “il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.

Sembra dunque un piano perfetto per attuare lo spoil system tra i grand commis: mandare via quelli non graditi e nominare quelli fedeli alla maggioranza, col rischio, oltretutto, di numerosi ricorsi, con contenziosi che potrebbero arrecare un serio danno alle casse dello Stato.

Della questione ha parlato in un incontro pubblico anche Massimo D’Alema. “Dopo riforma costituzionale e legge elettorale, la riforma della dirigenza pubblica è il terzo passaggio per mettere Palazzo Chigi al centro di tutto, con poteri che mai si sono visti nella storia repubblicana. Un pericolo per la nostra democrazia”, ha detto l’ex premier. Obiezione, con toni assai più diplomatici, sollevata anche dai giudici del Consiglio di Stato. Ma sono in tanti a intervenire, specie le associazioni di categoria come la Confedir, che chiede di “tutelare la dirigenza pubblica e non di far esplodere una sorta di precariato dirigenziale”. Secondo Carlo Mochi Sismondi, presidente di Forum PA, invece, “fare riforme a costo zero (come sostiene il governo, ndr) è come scalare un ghiacciaio con le scarpe da ginnastica”. Inoltre “l’errore della riforma è considerare i dirigenti con un unico insieme, mentre ci sono quelli di garanzia, di gestione e gli specialisti”.

Il ruolo unico era previsto anche nella riforma Bassanini degli anni Novanta: durò qualche anno e poi si ritornò al sistema precedente. “Far giudicare tutti i dirigenti da un’unica commissione è impresa assai ardua. Da questo provvedimento emerge una diffidenza del governo nei confronti delle amministrazioni”, ha osserva di recente in un seminario a porte chiuse Antonio Naddeo, direttore generale del Dipartimento Affari Regionali. Insomma, il braccio di ferro tra i dirigenti della pubblica amministrazione e Palazzo Chigi va avanti, ma sull’esito ormai si è inserita anche la variabile referendaria.

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