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Cosa succede davvero in Libia (e cosa fa l’Italia)

Domenica gruppi armati hanno minacciato la base navale di Abu Setta, nel quartiere di Suq al Jamaa, ad est di Tripoli. La vicenda è di primo interesse perché all’interno di quella postazione militare trova riparo e protezione il primo ministro che l’Onu ha scelto per riunire la Libia più di un anno fa, Fayez Serraj. Tensioni alla vigilia di importanti decisioni sull’immigrazione che coinvolgono l’Europa e la Libia.

LA CONDIZIONE DI SERRAJ

Serraj è ben lontano da essere il premier in grado di rappacificare il paese come le Nazioni Unite vorrebbe, e lo dimostra il fatto che è stato insediato con una forzatura diplomatica il 30 marzo del 2016, e ancora dopo un anno non solo non è in grado di gestire le varie anime (e i vari animi), ma non è nemmeno propriamente libero di girare per Tripoli, e anzi, a pochi giorni dal suo primo anniversario la base militare da cui gestisce il Consiglio Presidenziale – l’organo che vicaria un vero e proprio governo secondo il protocollo sponsorizzato dall’Onu – è finita sotto i colpi di una delle milizie dell’opposizione. A proposito di anniversari: oggi, 20 marzo, scattano i primi cento giorni di governo del premier italiano Paolo Gentiloni. A Roma è in programma il vertice Europa-Nord Africa, un incontro in cui i ministri italiani che guideranno i lavori sottolineeranno di nuovo il proprio impegno al fianco di Serraj: la presenza del wannabe-premier libico era considerata quasi da escludere per ragioni di sicurezza fino all’ultimo, e invece alla fine è arrivato anche lui nella capitale italiana (ci saranno alti rappresentati di Serraj e il commissario europeo per l’Immigrazione Dimitri Avramopoulos). Ad un certo punto, domenica, girava anche la notizia secondo cui il premier fosse stato “esfiltrato”, termine tecnico militare con cui si definisce l’evacuazione rapida in un teatro ostile, da militari delle forze speciali italiane. Così non è stato, Serraj è rimasto a Tripoli, ha parlato in televisione, ma è chiaro che la situazione è ancora tesissima.

LE OPPOSIZIONI

La principale delle opposizioni pseudo-mafiose tripoline è rappresentata dalla milizia di Khalifa Ghwell, ex leader di un governo non-riconosciuto che per una dozzina di mesi ha amministrato la Tripolitania in contrapposizione alle forze cirenaiche dell’est rappresentate dal generale Khalifa Haftar (che rappresentano anch’esse un’opposizione al premier onusiano). Messa così pare che Serraj sia isolato, invece può contare sul sostegno di vari gruppi politici-armati (funzionano così i partiti in Libia), su tutti quelli della città/stato di Misurata, acerrimi nemici di Haftar. I misuratini hanno forte influenza a Tripoli (ce l’hanno perché hanno le armi e ricevono appoggi esterni da Turchia e Qatar), ma all’interno dei clan della capitale il rispetto nei confronti di Misurata sta finendo. Ghwell gode anch’egli di una (più debole?) protezione diplomatica turca – per esempio fu in Turchia che il deputato grillino membro del Copasir Angelo Tofalo lo incontrò la scorsa estate, accompagnato da una persona finita invischiata in una storia di traffico d’armi, per cercare di aprire la strada ad un’improba mediazione. Ghwell rivendica il proprio ruolo, o un proprio ruolo, sul processo di riunificazione del paese: si sente il premier in carica, e ha già cercato per due volte (tre con domenica, anche se in via meno ufficiale?) il colpo di Stato; era ottobre 2016 e gennaio 2017. Questo tentativo di rappresentanza (che gli sarebbe anche concesso se non fosse una disperata ricerca di un ruolo egemonico) lo accomuna (anche nella disperata ricerca) ad Haftar: un altro punto di contatto è rappresentato dalla Russia, che nei mesi scorsi ha gettato il suo peso diplomatico contro il generale dell’est, e ha cercato di imbastire colloqui con Ghwell, in un curioso tentativo di avvicinamento nell’ottica del nemico comune Serraj; si scrive “curioso” perché se c’è un motivo formale per la discesa in campo di Haftar quello è combattere le forze islamiste che Ghwell (e Misurata) rappresentano. Le tensioni tra est e ovest, e rispettivi sponsor, nelle ultime settimane si sono concretizzate a Tripoli, dove le milizie fedeli a Serraj e quelle delle opposizioni hanno ricominciato a scontrarsi: il 15 marzo i misurati hanno praticamente preso il controllo dell’hotel Rixos, quartier generale nostalgico di Ghwell. Successivamente, per cercare di sedare gli animi, Serraj s’è fatto promotore di un accordo di pace tra milizie tripoline: avrebbe dovuto durare trenta giorni, ma dopo un paio di nottate tranquille, domenica pomeriggio è stata Abu Setta a finire accerchiata. Come è possibile che Serraj gestisca il grosso dossier dell’immigrazione se non ha il controllo del paese?

L’IMMIGRAZIONE, L’ITALIA, L’EUROPA

Questa situazione critica è una pessima notizia per primo per l’Italia, che sul ruolo di Serraj come leader del futuro governo unito ha scommesso molto anche nell’ottica del contenimento della crisi migratoria. Dalla Libia partono le rotte africane che tagliano il Mediterraneo verso l’Europa, e gli arrivi sono quasi raddoppiati rispetto al 2016: circa venti mila contro gli undicimila dello scorso anno nello stesso periodo di tempo. Per questo anche l’UE sta lavorando in questo senso. L’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini era a Tunisi in questi giorni, dove si è svolto un incontro del “Quartetto” (Unione europea, Lega araba, Unione africana e Onu) con l’intento di sbloccare la situazione politica che impedisce la legittimazione definitiva al governo Serraj. Il premier, secondo l’intesa onusiano siglata a dicembre del 2015, deve ricevere la fiducia dall’ultimo parlamento eletto rifugiatosi a Tobruk (nell’est haftariano): ma anche qui, stante la situazione, l’avallo politico può fermare le armi?

LE FORNITURE RICHIESTE ALL’ITALIA

Il Corriere della Sera racconta alcuni retroscena dell’accordo per il contenimento e il controllo della principale rotta migratoria mediterranea siglato il 2 febbraio tra Roma e Tripoli. Si tratta di una lista della spesa, necessità presentate dai libici all’Italia per poter ottemperare alle clausole dell’intesa: “Dieci navi per la ricerca e il soccorso e 10 motovedette che devono essere utilizzate per i controlli sotto costa. E poi quattro elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 jeep, 15 automobili, 30 telefoni satellitari, mute da sub, bombole per l’ossigeno, binocoli diurni e notturni” spiega Fiorenza Sarzanini che estrapola i dati da un elenco di dieci pagine che Serraj ha fatto arrivare a Roma anticipando la riunione in programma oggi. Una spesa prevista di “almeno 800 milioni di euro” a fronte di uno stanziamento eccezionale di 200 milioni messo sul piatto dall’Europa che ha avallato l’intesa di febbraio chiusa dall’Italia. L’UE finanzierà anche la missione con cui la Capitaneria di Porto addestrerà la guardia costiera libica. Prevista anche la creazione di una sala di controllo e comando in Libia: con un problema, l’invio dei sistemi radar dovrà essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, visto che vige l’embargo sulle armi per la Libia. La circostanza è complicata, perché Haftar sta spingendo molto Mosca affinché sblocchi le sanzioni, e il passaggio dei radar italiani a Serraj potrebbe creare un precedente. Proprio la scorsa settimana il generale Thomas Waldhauser capo di Africom, il comando geografico del Pentagono che gestisce le operazioni in Africa, in audizione al Congresso ha alzato l’attenzione di Washington sull’assertività russa in Libia.

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