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Come ricostruire la fiducia tra Stati Uniti ed Europa. Parla Marta Dassù

europa, bandiera europea

“Sulla collocazione euro-atlantica del Paese, le prime mosse del governo Conte sono state di empatia e di vicinanza agli Stati Uniti, come si è visto chiaramente al G7. La visita a Washington, alla fine di luglio, conferma che il nuovo governo italiano è considerato un partner interessante dalla Casa Bianca. Per ragioni di politica interna, anzitutto; sulla politica estera vedremo nei fatti”. Secondo l’esperta, i rapporti tra Stati Uniti ed Europa sono forse al punto più basso dalla fine della Seconda guerra mondiale, con divergenze su commercio, clima, Iran. Eppure, di fronte all’attivismo della Russia ai confini orientali dell’Europa e alla sfida globale posta dalla Cina, la partnership euro-atlantica resta indispensabile e va rilanciata, ricostruendo la fiducia fra le parti.

Il dialogo strategico che si è tenuto a Bruxelles ha avuto un titolo emblematico: “Crisis across the Atlantic”. C’è realmente una crisi tra le due sponde dell’oceano?

L’idea, evidente nel titolo scelto, è che il rapporto transatlantico sia oggi esposto a un cambiamento di fondo rispetto alla storia comune di Stati Uniti ed Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Una tesi possibile è che ciò non sia attribuibile solo alla presidenza Trump. Certo: la Casa Bianca sembra vedere nella Germania un competitor, più che un alleato. Il surplus commerciale tedesco verso gli Stati Uniti è considerato una questione di sicurezza nazionale. Ma il problema va al di là di un presidente “rivoluzionario” come Trump; riguarda trend strutturali che erano già evidenti con la presidenza Obama. Gli Stati Uniti non sono più disponibili a sostenere l’onere di un sistema occidentale che hanno largamente contribuito a costruire, che hanno garantito per decenni ma che oggi considerano squilibrato a sfavore dell’America. Da parte sua l’Europa, con molte tensioni interne, sta cercando di diventare una potenza in grado di difendere in modo più autonomo i propri interessi strategici. Vedremo se riuscirà, vista la riluttanza di una parte dei paesi europei ad aumentare le spese militari e vista l’ondata di “ri-nazionalizzazione” in atto. Ma sommando i due trend, statunitense ed europeo, il risultato è che il vecchio Occidente appare superato nei fatti. Ed esistono interessi divergenti su dossier importanti.

Negli ultimi mesi, ciò è emerso su questioni come l’accordo nucleare iraniano, il clima e il commercio. In vista del prossimo Summit Nato, c’è il rischio che le divergenze si estendano ai temi della sicurezza e della difesa?

Non credo che accadrà. Guardando ai fatti e alla situazione on the ground, l’Alleanza Atlantica è stata per ora al riparo da questo tipo di divisioni. Dopo i dubbi iniziali sulla credibilità della Nato (definita “obsoleta” a gennaio 2017, ndr), il presidente Trump ha aumentato l’impegno americano nell’Alleanza, ad esempio potenziando la presenza di forze americane sul fronte orientale del Vecchio continente. In tal senso, non ci dovrebbero essere grandi sorprese nel prossimo Summit di Bruxelles, dove dovrebbe anche essere raggiunto un accordo preliminare sull’annosa questione del “burden sharing”. Ma Trump porta sempre con sé un forte elemento di imprevedibilità; niente può essere dato per scontato.

Non c’è il rischio che sul 2% del Pil da destinare alla Difesa, tanto caro a Trump, possa esplodere il vertice?

La discussione sul burden sharing dura da molti anni. In tempi recenti, già Robert Gates, segretario alla Difesa dal 2006 al 2011, aveva avanzato un monito più che esplicito agli alleati europei sulla spesa per la difesa. Al prossimo Summit, la Nato dispone in realtà di un trend abbastanza incoraggiante da mettere sul tavolo: dal 2014 in poi, la spesa complessiva europea è aumentata, anche se solo tre paesi hanno raggiunto la fatidica soglia del 2%. Bisogna vedere se il presidente americano vorrà guardare il bicchiere mezzo pieno – il trend generale è cambiato – o mezzo vuoto. È difficile dirlo in anticipo, ma il clima che si respira su questo punto specifico a Bruxelles appare in fondo abbastanza tranquillo.

L’impressione, su questo come su altri temi, è che l’amministrazione americana presenti un vertice molto separato dalla struttura, come se Trump conducesse un’attività a parte che spesso mette in difficoltà il lavoro dei suoi stessi collaboratori, un po’ come successo al G7 in Canada. È così?

Effettivamente, sembra esistere una struttura di governo a doppio livello, con figure come il capo del Pentagono, James Mattis, o la rappresentante permanente alla Nato, Kay Bailey Hutchinson, a garantire la continuità delle scelte americane. Anche su un tema – la Russia – su cui Trump è invece tentato di giocare la carta della discontinuità. Vedremo presto, con il vertice previsto fra Trump e Putin. Gli europei, come più volte in passato, temono in effetti di essere scavalcati da un accordo diretto fra Cremlino e Casa Bianca. D’altra parte, l’Italia vede con favore una scelta di dialogo con la Russia e punta, come noto, a una revisione delle sanzioni.

Il Vecchio continente come sta vivendo questo relativo distacco degli Stati Uniti?

L’Europa è alle prese con una serie di problemi interni, a cominciare dalla fragilità della coalizione tedesca. Angela Merkel rischia di essere sconfitta sulla questione migratoria. E la questione migratoria è in genere il catalizzatore di una crisi politica evidente dell’Ue di oggi, che non diventerà certo più semplice da gestire se l’economia dovesse rallentare – come appare probabile. Con una simile fragilità interna, è difficile per l’Europa essere una potenza efficace all’esterno. Sul tema della difesa qualche progresso c’è stato, soprattutto con il Fondo ad hoc predisposto dalla Commissione (l’Edf che potrebbe dotarsi di 13 miliardi per il 2021-2027, ndr). Potrebbero però nascere difficoltà con Londra e con gli Stati Uniti attorno alla questione dell’accesso ai finanziamenti europei nel settore della difesa.

Nei tre giorni a Bruxelles, avrà sicuramente avuto modo di tastare le aspettative e gli interrogativi di esperti dei Paesi alleati sul nuovo governo italiano. C’è ancora la preoccupazione dei primi giorni?

Direi di no: la collocazione euro-atlantica del Paese è stata confermata con le prime mosse del governo Conte. La Casa Bianca vede anzitutto con favore l’evoluzione interna dell’Italia. Sulla politica estera, inclusi i rapporti con la Russia, si vedrà nei fatti. La nomina di Enzo Moavero alla guida della Farnesina è considerata rassicurante dagli europei. Così come le dichiarazioni del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, sulla permanenza dell’Italia nella zona euro. In materia di migrazioni, è interessante che alcuni dei partecipanti alla nostra conferenza di Bruxelles abbiano considerato legittima la posizione di Matteo Salvini, vista la mancanza di solidarietà europea nei confronti dell’Italia.

Torniamo alla “Crisis accross the Altantic”. Come si supera il momento critico?

La Double track diplomacy (la cosiddetta diplomazia informale, ndr) e incontri come quelli del network Aspen sono uno strumento utile proprio in momenti di crisi. L’obiettivo è di ricordare l’importanza della partnership euro-americana: l’Alleanza fra democrazie occidentali resta indispensabile in un mondo in cui potenze illiberali globali, anzitutto la Cina, sono chiaramente interessate a riscrivere le regole del gioco a loro vantaggio. Mantenere i rapporti atlantici è fondamentale, ma certamente non può essere fatto sulla base di un accordo del secolo scorso. C’è un problema serio di adattamento al nuovo sistema internazionale che coinvolge tanto gli Stati Uniti quanto l’Europa. Gli Usa devono rassicurare il Vecchio continente sul fatto che è nel loro stesso interesse mantenere una partnership con l’Europa. D’altra parte, l’Europa deve riuscire a costruire strumenti che le permettano di assumersi maggiori responsabilità. Il problema è il timing: di fronte a un mondo che procede molto velocemente, la speranza è che l’adattamento non richieda troppo tempo.

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