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Fra Stati Uniti ed Europa c’è la Russia. Come risolvere il rebus?

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Non è facile inquadrare la scelta del Presidente americano Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) per la proliferazione missilistica con la Russia siglato nel dicembre 1986 da Michail Gorbačëv e Ronald Reagan. Strappi e ricuciture con il Cremlino si sono susseguiti a intermittenza da quando il Tycoon ha preso posto nello Studio Ovale. Ma la ghigliottina della Casa Bianca su un accordo che ha posto fine alla vicenda degli euromissili e ha fatto sperare in un’archiviazione della Guerra Fredda rischia di tirare la corda fino a strapparla. Il clima non aiuta il consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, appena giunto a Mosca per incontrare Vladimir Putin e preparare un nuovo faccia a faccia fra leader dopo il summit di Helsinki a luglio. Siamo a un punto di non ritorno delle relazioni fra Washington e Mosca, oppure si tratta di un azzardo negoziale di Trump non dissimile da quello (apparentemente andato a buon fine) tentato con la Corea del Nord? Anche di questo si è discusso questo lunedì alla terza edizione del Transatlantic Forum on Russia al Centro Studi Americani (Csa). Introdotti dal direttore del Csa Paolo Messa, esperti e accademici italiani, americani e russi si sono alternati sul palco per mettere a fuoco il rapporto conflittuale della Russia con l’Occidente.

Un rapporto controverso, che ha visto un brusco deterioramento negli ultimi dieci anni a dispetto delle aperture dello stesso Vladimir Putin all’Europa e alla cultura atlantica che avevano fatto sperare in un appeasement a inizio anni Duemila. Oggi quel disegno è sbiadito, e ha ceduto il posto a un’escalation iniziata prima ancora della guerra in Donbass: “Il tentativo di ancorare la Russia all’Occidente è sostanzialmente fallito” è il giudizio di Marta Dassù, vicepresidente del Csa e già viceministro agli Affari Esteri con i governi Monti e Letta, “oggi siamo in un’area grigia, parecchi esperti occidentali parlano di una nuova Guerra Fredda, non c’è dubbio che il ritiro di Trump dal trattato Inf sia un segnale preoccupante che riaprirà in Europa la questione nucleare”. L’annessione russa della Crimea nel 2014 è solo l’ultima goccia di un vaso già traboccante. Europa e Stati Uniti hanno le loro colpe, nota Antonello Folco Biagini, presidente della Fondazione Sapienza: “La deriva asiatica russa cui assistiamo oggi ha radici culturali profonde, già nel XIX secolo a Mosca imperversava il dibattito fra slavisti e zarofili”. Però “lo slittamento del baricentro geopolitico russo verso Oriente è anche conseguenza di una chiusura dell’Occidente iniziata negli anni ’90 e aggravatasi negli ultimi dieci anni”. E pensare, continua l’accademico, “che la Russia ha sempre guardato a Occidente, non dimentichiamo che il marxismo e il bolscevismo sono prodotti occidentali, il riposizionamento verso Est è dovuto soprattutto a una crescente repulsione della cultura e del modello politico statunitense ed europeo”. Le aspettative di una nuova era di dialogo fra Stati Uniti e Russia che hanno accompagnato Donald Trump nella sua corsa alla presidenza hanno presto lasciato il posto alla real politik imposta dall’establishment politico, militare e diplomatico di Capitol Hill. È accaduto piuttosto l’inverso.

“È nel 2016 con il caso Russiagate, non nel 2014, che affonda le sue radici il nuovo antiamericanismo russo” spiega al Csa Ivan Kurilla, esperto di relazioni transatlantiche e docente all’Università Europea di San Pietroburgo. “Il ritiro dal trattato Inf è rientra in una strategia di Trump per mostrarsi impassibile con i russi e difendersi dalle accuse sulle elezioni presidenziali”. Che sia una mossa strategica o un azzardo, si tratta comunque di un errore, continua l’esperto: “Se il trattato Inf fosse abrogato il contraccolpo europeo sarebbe il più severo, i missili russi a medio raggio non possono colpire gli Stati Uniti ma sicuramente riescono a colpire il Vecchio Continente”. L’origine dell’escalation fra i due blocchi propria di questo secolo secondo Kurilla è da ricercare nella fase di transizione che è intercorsa fra il crollo dell’Unione Sovietica e la presidenza di Putin, e soprattutto nella scelta di escludere Mosca dal processo internazionale di institution-building degli anni ’90. “È il caso dell’Unione Europea, che ha scelto di tener fuori la Russia dalle riforme di quegli anni, fu un grave errore, perché all’epoca la popolazione russa si percepiva come profondamente europea”. Il conto è salatissimo. Se fino ai primi anni 2000 Putin parlava pubblicamente di una “Grande Europa” oggi la narrazione russa è stata invertita.

L’endorsement russo ai partiti sovranisti ed euroscettici in vista delle elezioni europee del 2019 è un chiaro segnale di quanto sia irreversibile alle condizioni attuali l’avversione di Mosca al progetto europeo. “Il disegno di convergenza avviato dalla perestrojka oggi non c’è più” spiega Fabio Bettanin dell’Università Orientale di Napoli. “Fino a qualche anno fa Putin parlava davanti ai leader europei di riforma dell’Osce e del Consiglio d’Europa, durante le celebrazioni del cinquantesimo anniversario dell’Ue ha persino detto di supportare il processo di costruzione dell’Unione Europea”. L’Europa dal canto suo parla a più voci e, dice Messa, “talvolta gioca il ruolo di protagonista, altre volte però rimane attore passivo”. “Non è stato fatto un gran progresso negli ultimi due anni” – sospira Karoline Kanter, direttrice della fondazione Konrad Adenauer a Roma – “il prossimo anno si celebrerà il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino e il quindicesimo dall’allargamento dell’Ue, eppure manca una direzione comune”. L’auspicio, conclude, è che l’Europa esca dall’angolo e imbocchi una terza via, quella del dialogo in una posizione di forza, che tenga conto della sicurezza europea e delle antiche relazioni con il popolo russo. È in fondo la ricetta che Trump continua a proporre: “security through strenght”.

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