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Una Brexit tutta da scrivere

Oggi è il giorno dei simboli. Delle cerimonie. Della commozione. Di Auld lang syne cantata con le lacrime agli occhi al Parlamento Europeo. La fine di un’era, come suggeriscono alcune testate, ricordando il lungo matrimonio fra UK e UE, dal 1973: quasi cinquant’anni. Un muro oltre il quale quei due ragazzi nell’immagine di copertina non sanno quale futuro li attende.

Un percorso contrastato, quello fra Ue e UK; che non ha mai dato grandi soddisfazioni, per la verità. Nato già male. Nel 1973 la Gran Bretagna entrava finalmente nella Comunità Europea dopo la fine del veto di De Gaulle, con grandi aspettative di sviluppo; che furono subito frustrate dallo shock petrolifero e l’austerità degli anni Settanta. Una sciagura per tutto l’Occidente, ma che in Gran Bretagna coincise proprio con l’ingresso in Europa, lasciando una sensazione di disagio mai risolto. Vent’anni dopo, nel 1990, la sterlina entra faticosamente nel Sistema Monetario Europeo dopo difficili negoziazioni; e dopo solo due anni è costretta ad uscirne a seguito delle speculazioni sui mercati finanziari che accompagnarono il voto danese che negava la ratifica del Trattato di Maastricht. La Brexit decisa nel giugno 2016 con uno sciagurato referendum non poteva capitare in un momento peggiore: quando le politiche fallimentari e tutt’altro che solidaristiche di gestione della crisi greca avevano infiammato il populismo ed il nazionalismo in tutto il Vecchio Continente.

L’effetto immediato della Brexit, che si compirà alla mezzanotte di oggi, è poca cosa. Diventano improvvisamente disoccupati qualche migliaio di politici e burocrati britannici nelle istituzioni europee. Ma lascia aperte voragini di incertezza sulle sorti dei popoli coinvolti e delle loro future relazioni politiche e commerciali.

Da domani cessa la cittadinanza europea dei sudditi di Sua Maestà; ma è ben poca cosa, tanto è vero che l’unico riflesso concreto e immediato sarà il cambio del passaporto, col ritorno al blu e la cancellazione della dicitura “Unione Europea”. Un simbolo, certo. Di un distacco. Ma anche della pochezza del valore di una cittadinanza collettiva che porta con sé solo una dicitura sul passaporto; o poco più. Mentre il resto dei diritti reciproci è affidato, come la maggior parte delle cose in Europa, alla volontà politico-diplomatica dei governi nazionali. Che infatti hanno deciso di lasciare tutto inalterato fino (almeno) alla fine dell’anno. Poi si vedrà. A fine febbraio inizieranno le negoziazioni sugli aspetti economici ed a marzo quelle sull’accordo generale. Nella speranza di non doverci ritrovare nuovamente a fine dicembre con ulteriori richieste di proroghe, in un’agonia che si preannuncia senza fine.

Quello che succederà dopo dipenderà esclusivamente da quanto verrà negoziato. Niente è prevedibile e qualsiasi discorso sul “domani”, ad oggi risulta completamente inutile.

Mi permetto quindi solo due osservazioni. La prima: quella che si è messa in moto con la Brexit è una partita fra due modelli di convivenza civile. Quello nazionale scelto dalla UK, la quale spera di poter tornare ad una gestione nazional-sovranista della società, che si appoggia alla speranza di essere nuovamente una grande potenza imperiale (ma il mondo è cambiato), con relazioni privilegiate con gli Usa (ma dipenderà molto dal Presidente di turno); con rischi di disgregazione interna che richiederanno risorse finanziarie ed ingegnerie politico-costituzionali tutte da inventare. L’altro, quello che dovrà costruire la Ue, fondato su un’idea più moderna e coerente di condivisione della sovranità in aree strategiche dove la dimensione nazionale è ormai obsoleta e perdente di fronte alle sfide interne e globali. Su una cittadinanza multilivello, coerente con la dimensione multilivello delle identità individuali, che non possono essere ingabbiate nella cornice giuridico-amministrativa degli Stati nazionali, se non in quelli di dimensioni continentali (Usa, Cina, India, Canada, Brasile, Australia). Un modello ad oggi mai veramente sperimentato nella Ue ed anch’esso tutto da inventare.

La seconda osservazione concerne la lezione/morale che si può trarre da questa vicenda. E che credo dovrebbe essere interpretata così: la Ue non è riuscita a tenere fede alle sue promesse iniziali, ossia di costituire un fattore di pace e benessere crescente per tutti i propri cittadini. Nei momenti decisivi, ossia quelli più critici, alle guerre fra eserciti si sono sostituite feroci guerre fra sistemi economico-politici, che hanno acuito le differenze nazionali ed all’interno delle nazioni stesse. Siamo ancora in mezzo fra una gestione confederale, che come ci ricordano le origini degli Usa è foriera di conflitti (anche se non armati, per fortuna), ed una forma federale, decentrata ma allo stesso tempo coesa, di convivenza civile. La brexit mostra che questa forma ibrida e necessariamente provvisoria non è sostenibile nel tempo. O degenera nella frammentazione ed il ritorno alle sovranità nazionali (UK) o evolve, rapidamente, verso un soggetto federale capace di essere attore di pace e sviluppo per i propri cittadini e nel mondo.

Non sappiamo cosa attende i due giovani al di là del muro; ma sappiamo che, qualsiasi strada sceglieranno, sarà probabilmente senza ritorno.

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