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Come tradurre il debito buono in azioni concrete. La ricetta dei manager

Mario Draghi ha aggiunto un’altra pietra miliare a un percorso avviato dopo la conclusione del suo mandato di Presidente della Bce. Non sarà l’ultima. Il largo consenso – con l’eccezione dei sovranisti più ortodossi – che hanno generato le sue parole, come sempre precise, chiare, generatrici di immagini e priorità, è stato prevalentemente affiancato a una critica verso la politica italiana, incapace di trovare una via per la ricostruzione efficace, dopo il picco della pandemia.

Come scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera l’autunno in arrivo “dalla scuola alla vendemmia non sappiamo ancora come andrà a finire”. Il monito più forte, che tocca più in profondità, riguarda i giovani, l’oblio e la rassegnazione che sembrano accompagnarli nel dibattito pubblico. Chi lo condivide, ed è ben difficile non farlo, ha il dovere di tradurlo in idee, proposte, azioni.

Per quanto gravata da decenni d’inazione, l’impresa non è impossibile. L’altra faccia della decrescita demografica è la possibilità di concentrarsi maggiormente sui pochi giovani delle ultime generazioni: solo 10 milioni circa i minori di 18 anni, altri 4 mil. circa sotto i 25. Noi, gli altri 46 milioni di italiani, potremmo farcela, trovando le risorse necessarie.

La via maestra è rappresentata dalla cultura, dall’istruzione, dalla conoscenza, dall’integrazione sociale. Non sono sinonimi, richiedono azioni dedicate e specifiche, ciascuna guidata da competenze sicure e profonde. Gli infiniti dibattiti sulla scuola – migliore o peggiore di quella di matrice anglosassone? – non possono ignorare l’enorme patrimonio che essa disperde: un sistema selettivo che premia e aiuta chi proviene dalle famiglie già in vantaggio sul piano culturale ed economico, che si focalizza sui contenuti, sulle materie, sulle aule, sui banchi, senza incidere sui tassi elevatissimi di dispersione scolastica, sulla riduzione dei gap di apprendimento, sullo sviluppo d’interessi e passioni per il sapere e il saper fare.

Una scuola che non va solo riformata, ma aiutata a trasformarsi nel luogo privilegiato d’integrazione tra le generazioni e i saperi. Insegnanti e dirigenti scolastici vanno aiutati, affiancati, le loro competenze sviluppate e integrate con quelle di altri settori della cultura e del lavoro.
Nelle aree del Paese e nei quartieri cittadini in cui si manifestano più acutamente le debolezze delle famiglie d’origine vanno create strutture e occasioni residenziali per l’apprendimento.

Un giovane che non ha mai visto una realtà diversa da quella del degrado e della povertà culturale come può aspirare a migliorare sé stesso e il luogo in cui vive? Può al massimo cercare il “salto” tramite le strettissime vie dello sport e dello spettacolo. Vivere in luoghi diversi aiuta a pensare diversamente: chiamando a raccolta i “fratelli maggiori” che ce l’hanno fatta, i possibili modelli di adulti, quelli di cui spesso non parla la televisione, i manager, i tecnici, i ricercatori, gli artisti, l’istruzione e l’apprendimento diventano azioni vive, non si limitano al trasferimento di nozioni e di metodi.

Scuole come campus aperti, a partire dall’età fondamentale per lo sviluppo, i 10 anni.
Ma servono anche investimenti in asili nido e scuole dell’infanzia, con il duplice scopo di rafforzare la solidità delle famiglie – la capacità di lavoro, di guadagno e di sviluppo di competenze delle madri, in particolare – e di mettere in pratica fin dai primi anni i principi fondamentali della convivenza e della collaborazione in una comunità. Un ruolo fondamentale spetta quindi agli educatori dell’infanzia, ben diverso da quello di semplici intrattenitori o “parcheggiatori”.
Un altro sforzo significativo deve portare al superamento di un concetto di istruzione superiore ancora derivato dall’Università per le élite.

Università ancora più aperte alla società, in particolare alla collaborazione con aziende, istituzioni, organizzazioni intermedie, superando un pregiudizio difensivo rispetto alla realtà complessa della nostra società. Ma anche percorsi di apprendimento misti scuola – lavoro, integrate con i processi di riconversione delle competenze divenute obsolete: giovani e meno giovani inseriti in percorsi comuni, favorendo lo scambio diretto di saperi ed esperienze.

Nessun Paese è riuscito a ridurre il numero di Neet senza iniziative di alternanza scuola – lavoro, nessun paese può pensare di ridurre la disoccupazione e la sottoccupazione senza programmi di apprendimento continuo. Il terzo e ultimo blocco di costruzione è un servizio di avviamento al lavoro degno di questo nome: che parta da un’approfondita analisi territoriale della domanda, che non si limiti agli adempimenti burocratici, che anche in questo caso coinvolga manager, imprenditori, professionisti nelle attività d’orientamento.

Dobbiamo costruire una rete a maglie più strette, in grado di evitare la fuga di tanti, troppi ragazzi. Fuga non tanto verso l’estero, quanto verso la rinuncia, la marginalità, l’insoddisfazione.
In Italia abbiamo le competenze per farlo e anche le organizzazioni per aggregarle e renderle utili.
Nei prossimi mesi avremo anche le risorse: quel “debito buono” evocato da Mario Draghi va tradotto in azioni concrete, a favore di quei 14 milioni di italiani ai quali è affidato il difficile futuro del nostro Paese.

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