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Vi racconto cosa agita la Tunisia. Parla Abdessalem (Nahda)

Di Giacomo Fiaschi

La transizione democratica tunisina, i rapporti con l’Italia e la partita tutta da giocare della Libia. Intervista a Rafik Abdessalem, membro dell’ufficio esecutivo del partito Nahda e fondatore e presidente del Center for Strategic and Diplomatic Studies

Dopo la caduta del regime presidenziale che in oltre mezzo secolo, dal 1956 al 2011, ha visto alternarsi alla guida del Paese solo due presidenti, Habib Buorguiba (1956-1987) e Zine El Abidine Ben Alì (1987-2011), la Tunisia ha intrapreso la strada di una transizione democratica che in soli dieci anni ha conosciuto tre presidenti: Moncef Marzouki (2011-2014), Beji Caïd Essebsi (2014-2019) e Kaïs Saïed, attualmente in carica.

La Costituzione del 2014 ha introdotto un regime sostanzialmente parlamentare, che separa il potere legislativo, appartenente al parlamento, dal potere esecutivo, di pertinenza del Presidente della Repubblica e del Capo del Governo, impropriamente detto dai media primo ministro, termine assente nel testo della stessa Costituzione, che assegna al Presidente della Repubblica la prerogativa di simbolo dell’unità del Paese e la facoltà di concordare con il Capo del Governo la nomina del ministro della Difesa e del ministro degli Affari Esteri. L’elezione diretta da parte del popolo del Presidente della Repubblica ha però portato gran parte della popolazione a credere erroneamente che il ruolo del Presidente della Repubblica sia rimasto immutato rispetto al passato, cosa che ha indubbiamente contribuito allo stato di confusione attuale.

La composizione del parlamento risultante dalle elezioni del 2019 è caratterizzata da una marcata frammentazione, che ha reso particolarmente difficile e laborioso formare una coalizione di maggioranza guidata dal partito Nahdha che, pur avendo ricevuto i voti necessari e sufficienti a raggiungere la maggioranza relativa, non ha ottenuto che 54 posti su 217, a causa della legge elettorale, che non consente una netta maggioranza.

A complicare ancora di più le cose, il Presidente della Repubblica Kaïs Saïed ci ha messo abbondantemente del suo, avviando le consultazioni con le parti per la nomina del capo del governo con lettera chiedendo loro di proporre un elenco di nomi. Dopo di che ha escluso tutti coloro che avevano ricevuto il maggior consenso per affidare l’incarico al suo ex consigliere da lui promosso alla carica di ministro degli Interni nel governo precedente. È apparsa subito evidente l’intenzione del Presidente della Repubblica Saïed di far fallire il tentativo: il che gli avrebbe permesso di procedere allo scioglimento del parlamento e di andare ad elezioni anticipate precedute da un referendum costituzionale per cambiare il regime da parlamentare a presidenziale. Ormai è comune opinione che l’ideologia di Saïed si ispiri ad una visione populista con tendenze anarchiche. Non crede né al parlamento né alla democrazia rappresentativa basata su partiti politici e controlli ed equilibri di potere.

Ma le cose sono andate diversamente: il capo del governo in carica è riuscito a guadagnarsi la fiducia grazie a una coalizione di maggioranza che sembrava impossibile. Da allora è iniziata, ed è tuttora in corso, una vera e propria guerra tra il capo del governo Habib Mechichi, considerato un traditore, e il presidente del Parlamento (e del partito di maggioranza relativa Nahda) Rachid Ghannouchi da una parte e dal Presidente della Repubblica dall’altra.

In questo clima rovente che sta paralizzando il Paese messo in ginocchio da una doppia crisi economica e sanitaria senza precedenti, si è inserito un personaggio attorno al quale si sono accesi i riflettori mediatici: Abir Moussi, la presidente del Pdl, partito di recente costituzione e new entry in parlamento, che ha rimesso in carreggiata i cavalli zoppi del regime di Ben Ali puntando sul populismo dell’”era meglio quando era peggio”. Forte del malcontento generale, Abir Moussi ha inscenato proteste contro tutti, ma ha preso principalmente di mira il partito Nahda e il suo presidente Rachid Ghannouchi, che lei dipinge come un pericoloso estremista, usando lo stesso discorso degli ex regimi dittatoriali.

Il sit-in organizzato da Abir Moussi mercoledì 10 marzo davanti alla sede dell’associazione Ulema (filosofi musulmani e teologi della scuola sunnita) animata da poche centinaia di militanti del suo partito ha spinto il pubblico ministero a intervenire con le forze dell’ordine bloccando tutte le vie di accesso e disponendo l’allontanamento dei manifestanti. Abbiamo quindi cercato di ottenere una rappresentazione dell’attuale situazione politica da Rafik Abdessalem, uno dei maggiori esponenti del partito Nahda, in modo da avere una versione dei fatti di parte, ma non certo trascurabile.

Nato a Tunisi nel 1968, Rafik Abdessalem si è trasferito in Marocco dopo il liceo, dove si è laureato in Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Mohamed V di Rabat. Successivamente si è trasferito a Londra e ha conseguito il dottorato in politica e relazioni internazionali presso l’Università di Westminster. Ricercatore presso l’Università di Westminster e l’Oxford Centre for Islamic Studies, è docente presso il Marc Field Center for Advanced Studies e direttore del Dipartimento di Ricerca presso il Centro Studi del canale televisivo qatariota Al Jazeera. Rientrato in Tunisia nel 2011 dopo la caduta di Ben Ali, è ministro degli Affari esteri del governo di Jebali. È autore di tre libri “Religione, laicità e democrazia”, “Gli Stati Uniti d’America tra hard power e soft power” e “Islam e modernità: un progetto incompiuto”. Ma per la stampa tunisina Rafik Abdessalem è solo il genero di Rachid Ghannouchi, fondatore e capo del partito Nahda e attuale presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, il parlamento monocamerale della Repubblica. Membro dell’ufficio esecutivo del partito Nahda, Rafik Abdessalem è il fondatore e presidente del Center for Strategic and Diplomatic Studies. È qui che lo incontro, giovedì 11 marzo, per un’intervista esclusiva per Formiche.net.

Il regime parlamentare definito dalla Costituzione del 2014 è considerato da molti inadatto al buon governo della Tunisia. Cosa ne pensate di questa opinione?

Indubbiamente, il modello della Repubblica parlamentare è laborioso e richiede uno sforzo considerevole per esprimere i valori democratici su cui si basa. Riunire e armonizzare le richieste e gli interessi legittimi delle varie componenti della società civile rappresentate in parlamento dai partiti politici non è un compito facile. Eppure resta la strada maestra per raggiungere gli obiettivi di giustizia, libertà e pace sociale negati da regimi come quello che ha portato la Tunisia alla situazione catastrofica di un Paese messo al servizio dei capricci di un clan formato attorno a un dittatore.

La transizione democratica tunisina iniziata nel 2011 ha trovato il sostegno iniziale delle grandi democrazie occidentali. Da parte degli Stati Uniti e dei Paesi membri dell’Unione Europea non è mancato il sostegno alla Tunisia. Tuttavia, negli ultimi quattro anni si è avuta l’impressione di un calo dell’attenzione, soprattutto da parte degli Stati Uniti, da questo punto di vista. Pensa che con la nuova presidenza americana la situazione potrebbe cambiare?

Sì. In effetti, ho motivo di credere che con l’elezione di Biden si stia dando maggiore importanza al rafforzamento delle democrazie sia nell’Europa meridionale che nella regione nordafricana. L’area euro-mediterranea, infatti, resta determinante negli equilibri geopolitici del mondo contemporaneo. I collegamenti con il continente africano da una parte e con il Medio Oriente dall’altra passano attraverso questa realtà, crocevia di culture e civiltà diverse che dovrà trovare un punto di incontro su cui costruire gli equilibri necessari per una sempre maggiore collaborazione per la sicurezza e per l’economia globale.

Come vede il futuro dei rapporti con l’Italia in questo scenario?

L’Italia e la Tunisia sono entrambe custodi di un patrimonio duemila anni di valori comuni costruito attorno a rapporti di collaborazione ininterrotti tra le due popolazioni, in particolare tra le popolazioni della regione italiana della Sicilia e quella della Tunisia. Ne sono la prova le comunità di Mazzara del Vallo e quella di La Goulette, solo per citare le due più note. Ma sbaglieremmo a relegare questo rapporto negli scaffali di un archivio. Oggi l’Italia è presente con novecento aziende, piccole e grandi, operanti in molteplici settori, dall’agroalimentare al tessile e abbigliamento, alla meccanica di precisione. C’è quindi un terreno fertile da coltivare a partire dagli interessi comuni che sono rappresentati da queste realtà e che rappresentano una rete dinamica e autonoma, dando vita a una sorta di quella che potremmo definire diplomazia parallela non sempre perfettamente allineata con quella ufficiale. Una diplomazia che anticipa problematiche e soluzioni spesso improvvisate a problemi che tardano a risolversi per la lentezza del sistema o per il semplice fatto che non sono stati oggetto della dovuta attenzione da parte degli organi competenti. Si pensi, ad esempio, alla questione del visto Schengen, entrato in vigore per la Tunisia negli anni ’80 con un dispositivo che mette la popolazione tunisina su un piano di parità con quella di qualsiasi altro Paese dell’Africa Centrale senza tener conto dei rapporti sviluppati e consolidati nel corso di venti secoli dal punto di vista storico, sociale, culturale ed economico tra due Paesi transfrontalieri, Italia e Tunisia, separati e allo stesso tempo uniti dal Canale di Sicilia che nelle giornate terse non impedisce di vedere ad occhio nudo dalla scogliera di Kelibia quella di Pantelleria. Si tratta ovviamente di problemi complessi, che necessitano di essere trattati con grande attenzione, ma anche con una certa urgenza per consentire uno sviluppo più equilibrato e coerente dei rapporti sociali, culturali, economici e, in una parola, umani tra due popoli amici e sempre collaborativi e solidali. La colonizzazione prima e poi due regimi dittatoriali non sono riusciti in quasi un secolo e mezzo a cancellare questo legame e questo rapporto di intensa cooperazione.

Ne sono la prova le novecento imprese a capitale italiano che, a differenza di altre in altre parti del mondo, rappresentano un esempio non di delocalizzazione ma di virtuosa internazionalizzazione grazie alla quale tante piccole e medie imprese italiane hanno potuto continuare a migliaia di posti di lavoro che, soprattutto negli ultimi decenni, avrebbero rischiato di essere persi.

E veniamo a un altro tema caldo: da tempo si moltiplicano gli imbarchi illegali dalle coste tunisine verso Lampedusa. Qual è il motivo di questa intensificazione del fenomeno?

Innanzitutto va notato che una buona parte di questi migranti proviene da Paesi centrafricani che arrivano soprattutto in territorio libico e in misura minore in territorio tunisino con l’obiettivo di raggiungere il punto di sbarco più vicino all’Europa. Italia, Libia e Tunisia sono solo i due punti di passaggio più facili, o meno difficili, da affrontare per proseguire verso Francia e Germania, i due Paesi di maggiore interesse per la maggior parte dei migranti che possono contare, una volta raggiunto il loro obiettivo, sul sostegno di familiari, parenti e amici già presenti da anni. L’aumento del numero di migranti tunisini, per lo più giovani di età compresa tra i sedici ei trent’anni, è dovuto essenzialmente a due motivi. Il primo è la naturale e comprensibile voglia di cambiare ed esplorare nuove realtà, comune a tutti i giovani; il secondo è la disoccupazione, soprattutto giovanile, che ha varcato la soglia di allarme e che è all’origine della voglia di emigrare per cercare una via d’uscita. In entrambi i casi si tratta di un desiderio legittimo e comprensibile, che viene però amplificato ed esasperato dalla barriera di un visto di ingresso per ottenere il quale sono richieste pratiche burocratiche molto pesanti che una volta espletate regolarmente non garantiscono, tuttavia, in alcun modo il l’ottenimento del visto stesso. Un visto che rappresenta una (più o meno) concessione benevola piuttosto che un giusto riconoscimento di uno stato di diritto. A tal proposito si segnala che se da un lato il recente incarico ad un’agenzia esterna di gestire le procedure per l’ottenimento del visto ha certamente posto un limite ai casi di corruzione, dall’altro non ha rappresentato, altrettanto certamente, una semplificazione delle pratiche stesse, che rimangono esattamente le stesse di sempre. Così accade che qualcuno preferisca risolvere il problema a modo suo, mettendo a rischio la propria vita imbarcandosi per sbarcare illegalmente in un Paese dove, se tutto va bene, si ritroverà rinchiuso in un centro di identificazione dal quale con ogni probabilità sarà espulso, e se andrà male diventerà una merce preziosa per i trafficanti di manodopera illegale o per le bande criminali che organizzano la vendita di droga e la prostituzione.

Il suo partito, Nahda, è descritto come una propaggine dell’Islam politico. Cosa c’è di vero in questa definizione?

Il termine “Islam politico” è molto vago e confuso. Mette tendenze e fenomeni politici ampiamente divergenti nella stessa categoria, impegno democratico e gruppi violenti radicali. Ci consideriamo democratici musulmani, poiché il nostro progetto mira a creare la democrazia all’interno di un quadro di riferimento islamico e perché sin dalla rivoluzione siamo stati il motore principale della democratizzazione in questo Paese.

In Tunisia oggi c’è chi, per convenienza politica, intende confondere Nahda, partito che non fa certo mistero di ispirarsi alla dottrina sociale dell’Islam ma che, allo stesso tempo, dichiara senza mezzi termini ( come del resto è stato ribadito in ogni occasione, ultima delle quali il Congresso del maggio 2016) il principio di distinzione tra azione politica e religione, con le varie espressioni di estremismo radicale all’origine di atti di terrorismo. Niente di più falso e sbagliato. Lo dimostra la cronaca dei dieci anni che dal 2011 vede il partito Nahda tra i maggiori protagonisti di una faticosa e ininterrotta transizione democratica. La verità è che per i nostri avversari, specialmente per coloro che brigano in ogni modo e con qualsiasi mezzo più o meno legittimo, rimettere il Paese nelle mani di una dittatura attraverso il presidenzialismo (che ha permesso a un Ben Ali qualsiasi di ridurre il Paese a un centro criminale specializzato nel riciclaggio di denaro sporco) l’agitazione dello spettro dell’islamofobia è rimasta l’unica arma a disposizione per cercare di smantellare una Repubblica parlamentare che al momento sembra essere l’unica barriera contro gli interessi politici delle bande malavitose che hanno tratto enormi profitti dalla connivenza e la complicità di cui ogni dittatura ha bisogno per resistere. Nahda sostiene il regime parlamentare perché è l’unico che può garantire una democrazia effettiva e reale contro ogni spinta verso una nuova forma di dittatura che si maschera da regime presidenzialista. Le difficoltà per mantenere oggi questo regime parlamentare sono enormi, amplificate dal persistere di una crisi economica generale, che coinvolge anche i nostri primi due partner commerciali, Francia e Italia, colpiti dagli effetti devastanti della pandemia del Covid-19 che non sembra recedere. L’ispirazione per i valori religiosi di Nahda è nel segno di una cultura di fraternità, rispetto e amicizia tra i popoli, condivisione e costruzione della pace.

Tutto ciò che è ostile a questi valori non è religione, ma lo sfruttamento della religione ai fini di una bassa politica orientata unicamente all’esercizio di un potere a cui il partito Nahda è totalmente estraneo, senza “se” e “ma”.

Un’ultima domanda: quest’anno è decisivo per la Libia, che dovrà affrontare un impegnativo percorso di ricostruzione. Intere città, reti stradali, infrastrutture essenziali come porti, aeroporti, cablaggi in fibra ottica, scuole, ospedali. Quanto pensa che un prolungamento della collaborazione tra imprese tunisine e italiane possa contribuire a questo gigantesco lavoro che vedrà la Tunisia come base logistica ideale nei prossimi anni?

Certamente le potenzialità di un’intesa e di una cooperazione comune tra Tunisia e Italia da questo punto di vista sono enormi. E non riguarderanno solo grandi multinazionali come Eni e Finmeccanica (oggi Leonardo), il cui contributo sarà ancora prezioso e indispensabile, ma anche una miriade di piccole e medie imprese in ogni settore, soprattutto edile, dalle grandi opere all’urbanistica. pianificazione, residenziale e popolare, ma non solo. Un Paese come la Libia, che dispone di enormi risorse nel settore energetico, potrebbe rappresentare l’occasione unica per un sostanziale passo in avanti nello sviluppo delle relazioni internazionali nell’area euro-mediterranea, di cui Tunisia e Italia rappresentano la massima espressione geopolitica. Abbiamo una straordinaria opportunità per valorizzare al meglio le nostre migliori competenze e soprattutto quel patrimonio di esperienze condivise grazie alle centinaia di piccole e medie imprese a capitale italiano presenti in Tunisia da decenni. Pertanto, è necessario lavorare il prima possibile e razionalmente per un coordinamento che renda possibile questa collaborazione.

Rientrando in taxi, l’autista mi spiega che è necessario prendere la tangenziale: la polizia ha chiuso tutte le strade di accesso al quartiere Montplaisir dopo aver disperso un sit-in di manifestanti, guidati dalla pasionaria del regime di Ben Ali Abir Moussi, davanti alla sede dell’associazione Ulema in Avenue Kherredina Pacha per evitare che il raduno degenerasse in violenza.

“Il mondo sta progredendo, il futuro è luminoso. Nessuno può cambiare questo orientamento della storia” ripeteva Mao Tse Tung (che conosceva davvero le rivoluzioni). Forse questo pensiero di Mao ci accompagnerà da qui alla fine della strada? Chiedo al tassista cosa ne pensa. Lui risponde con un sorriso: “Inchallah”, e continua a guidare con prudenza, il che è per me un grande conforto.

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