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Joe Biden alla prova dell’Afghanistan. Il commento di Gregory Alegi

In attesa di conoscere il piano dettagliato che Tony Blinken intende illustrare domani a Bruxelles agli alleati, la domanda è se lo spostamento della data di ritiro dall’Afghanistan all’11 settembre consentirà una chiusura ordinata dell’impegno militare, e soprattutto se lascerà il Paese in sicurezza. Il commento di Gregory Alegi, giornalista e storico

Domani il presidente americano Joe Biden annuncerà il ritiro totale delle forze statunitensi dall’Afghanistan entro l’11 settembre, ventesimo anniversario degli attacchi a New York e Washington. Lo si apprende dal Washington Post, alla cui breaking news è seguita notizia di una riunione urgente domani a Bruxelles con il segretario di Stato Tony Blinken con gli alleati sul tema. Di fatto, pur rinviando di quattro mesi il ritiro rispetto alla scadenza del primo maggio fissata dal suo predecessore Donald Trump, Biden conferma quindi l’intenzione degli Stati Uniti di uscire dalla loro guerra più lunga, e forse più controversa.

Una decisione che è avversata da un parte dell’establishment politico militare, che teme, probabilmente a ragione, che nel tormentato Paes esi possa insediare nuovamente una base di estremismo terrorista di matrice islamica, inevitabilmente anti-americana e anti-occidentale. D’altra parte, dopo 18 anni di presenza, la guerra è altamente impopolare, e Biden non può permettersi di prorogare la presenza ulteriormente senza rischiare di intaccare la sua popolarità e la percezione di buon governo che ha finora accumulato.

Meno chiari sono i piani americani per gestire la regione e, appunto, evitare che si ripeta una scena già vista troppe volte. I talebani, con i quali l’amministrazione Trump aveva coraggiosamente avviato trattative, avevano promesso di non attaccare forze americane fino al ritiro, ma gli sviluppi successivi sono impossibili da prevedere. Gli sviluppi riguardano anche i Paesi amici e alleati degli Stati Uniti, come l’Italia, a lungo presenti nel Paese e coinvolti quindi nella gestione sia della sicurezza, sia della ricostruzione. Questi Paesi sono comprensibilmente preoccupati, non solo dalla possibilità di un ritiro ordinato, ma anche dalla necessità di giustificare alle proprie opinioni pubbliche i risultati di “stabilità e pace” ottenuti a caro prezzo, economico e umano, nel corso di questi anni.

In sintesi, in attesa di conoscere il piano dettagliato che, apprendiamo in questi momenti, il segretario di Stato Tony Blinken intende illustrare domani a Bruxelles agli alleati, la domanda di tutti è se sarà una chiusura ordinata che consenta di parlare, se non di vittoria, almeno di pareggio, oppure se gli afgani potranno rivendicare l’ennesima vittoria sull’invasore, come hanno fatto dai tempi degli antichi romani fino ai sovietici. Negli Stati Uniti, tutti vogliono comunque evitare di dover assistere a scene come quelle dell’abbandono di Saigon il 30 aprile 1975 che gli osservatori più anziani, e sicuramente Biden, hanno ancora bene negli occhi. Il danno al prestigio americano sarebbe un ulteriore problema da affrontare per la nuova amministrazione democratica.

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