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Aerospace diplomacy. Il legame (forte) tra Italia e Stati Uniti

Satelliti, caccia, aerei di linea: quasi metà dei 160 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Stati Uniti passano per l’aerospazio. Dalle costruzioni su licenza alle collaborazioni, dai primi F-86K al Boeing 787, dal lancio dei satelliti ad Artemis, la crescita tecnologica dell’industria nazionale è proceduta di pari passo con lo sviluppo dei rapporti con gli Usa

Nel 1861, quando il neonato Regno d’Italia stabilì relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti d’America, la diplomazia dell’aria e dello spazio non esisteva. Con l’eccezione di pochi palloni aerostatici, l’umanità era allora saldamente ancorata al suolo, la tecnologia non esisteva e le distanze e i mari sembravano invalicabili.

Lo scenario cambiò nel 1903, quando i fratelli Wright inventarono l’aeroplano. Nel 1909 fu proprio Wilbur Wright a istruire il primo pilota italiano, Mario Calderara. Nel 1917 l’Italia accolse quasi 500 allievi americani che a Foggia impararono a volare e, sui bombardieri Caproni, scoprirono i concetti del potere aereo che Giulio Douhet andava formalizzando. Nel 1933 i ventiquattro idrovolanti Siai Marchetti S.55X guidati da Italo Balbo volarono da Orbetello a Chicago, un vero ponte nel cielo che resta il maggior successo della diplomazia aeronautica nazionale.

Ma è dopo la Seconda guerra mondiale, quando per la propria ricostruzione l’Italia sconfitta si ancorò saldamente al campo occidentale, che la “aerospace diplomacy” si affermò come componente essenziale del rapporto con gli Stati Uniti e contribuì al progresso tecnologico e industriale nazionale.

Il primo programma significativo fu produzione su licenza presso la Fiat del North American F-86K che, grazie al radar installato nel muso, fu il primo caccia “ognitempo” operativo con l’Aeronautica militare. Fu poi il turno del Lockheed F-104, il celebre Starfighter, anch’esso prodotto su licenza a Torino, con il coinvolgimento di tutta l’industria nazionale, alla quale permise un importante salto di qualità tecnologica e di processi produttivi. Epigono di questa linea è l’attuale programma F-35, il velivolo di quinta generazione al quale l’Italia partecipa con l’unica linea di costruzione fuori degli Stati Uniti.

La collaborazione è stata ancora più importante in campo civile, nel quale l’accordo del 1965 per la costruzione a Napoli dei pannelli di fusoliera del bireattore Douglas DC-9 vide l’industria italiana debuttare in un campo nel quale era sostanzialmente assente. Il passo successivo fu lo sviluppo di un aereo civile con Boeing, idea attorno alla quale nel 1969 nacquero prima l’Aeritalia, poi gli stabilimenti di Foggia e quindi la competenza negli allora avveniristici materiali compositi. Il Boeing 767, scaturito da questa collaborazione, rivoluzionò il trasporto aereo rendendo possibili i voli transatlantici con bimotori ed è tuttora in produzione. Il rapporto con Boeing, che comprese la formazione a Seattle di centinaia di ingegneri e tecnici italiani, è culminato nella partecipazione al programma 787, con progettazione e produzione di sezioni di fusoliera e impennaggi.

La posizione di primo piano dell’industria elicotteristica italiana affonda le radici nella licenza per la produzione di elicotteri Bell 47 ottenuta nel 1954 dalla piccola Agusta. Dopo mezzo secolo di licenze via via più complesse e ambiziose, nei primi anni 2000 la collaborazione si ripeté a parti inverse sull’AB.139 (oggi AW139, che ha tagliato il prestigioso traguardo dei mille esemplari), che come il più piccolo AW119 viene costruito nello stabilimento Leonardo di Philadelphia.

Anche i primi successi dell’Italia in campo spaziale si svolsero sotto l’egida degli Stati Uniti, per il tramite di Luigi Broglio, ufficiale dell’Aeronautica militare e, dal 1952, preside della Scuola d’Ingegneria Spaziale di Roma. Broglio entrò in contatto con il fisico Edoardo Amaldi e approdò nel 1958 alla presidenza della Commissione per la ricerca spaziale in Italia, nata su iniziativa dello stesso Amaldi. Negli anni successivi i due scienziati avrebbero incarnato le due anime della visione spaziale italiana: accademica e scientifica quella di Broglio, con baricentro a Roma e orizzonte negli Stati Uniti, tecnologica e industriale quella di Amaldi, che da Torino traguardava innanzi tutto l’Europa.

I primi risultati vennero da Broglio, che concordò con la Nasa americana la partecipazione allo studio delle correnti d’aria alle altissime quote, giungendo a lanciare nel 1961-63 dal poligono del Salto di Quirra razzi che toccarono quote di 210 chilometri. Questi successi indussero Broglio a immaginare una capacità lancistica nazionale, basata su piattaforme marine ancorate in prossimità dell’Equatore, per sfruttare appieno la componente di velocità della rotazione terrestre.

Nacque così il Progetto San Marco, collaborazione tra l’università di Roma e l’Aeronautica Militare, cofinanziata dal Cnr e dalla Nasa. Grazie a questa alleanza l’Italia il 12 dicembre 1964 lanciò il proprio satellite con un razzo Scout americano dalla base di Wallops Island, in Virginia, e risolse il problema del poligono realizzandolo al largo delle coste del Kenya su due piattaforme petrolifere donate dall’Eni. Da qui, il 26 aprile 1967, Broglio lanciò il San Marco B, sempre con uno Scout.

Anche la linea europea propugnata da Amaldi finì per convergere, almeno in parte, con quella americana: basti pensare allo Spacelab, contributo europeo al programma Space Shuttle e in quanto tale concepito per essere trasportato e funzionare nell’ampio vano di carico della navetta americana. Le strutture costruite in Italia costituiscono ancora oggi la parte principale dei volumi abitabili della Stazione Spaziale Internazionale. In prospettiva, queste capacità confluiranno nei progetti Nasa per la futura stazione lunare.

Le capacità sviluppate attraverso la collaborazione con gli Stati Uniti legano oggi i due Paesi e permettono all’Italia di giocare ruoli importanti anche nelle collaborazioni europee o in programmi bilaterali, spesso con il ruolo di “ponte” tra diverse culture ingegneristiche e gestionali. Come sempre accade, alla parte tecnico-ingegneristica si accompagna infatti lo sviluppo di linguaggi comuni e di metodi di lavoro condivisi, con una fertilizzazione reciproca. Basti pensare che l’attuale International Flight Training School (Ifts) è l’erede del concetto di “Sheppard italiana” lanciato anni fa sulla scorta dell’esperienza maturata in decenni di partecipazione alla scuola di volo Nato sulla base americana di Sheppard.

Questo excursus, forzatamente breve e incompleto, spiega perché la “diplomazia aerospaziale” si inserisca a pieno titolo nei 160 anni di rapporti diplomatici tra i due Paesi, una tela fitta alla cui trama e ordito fornisce oggi molti importanti fili.

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