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Recovery plan, prima il lavoro, poi le pensioni. I consigli di Mastrapasqua

Il patto generazionale di cui l’Italia ha bisogno non riguarda l’incontro tra due o più corporazioni – quella dei pensionati e quella dei Millennials o della generazione Z – ma l’integrazione solidale di due o più componenti (non solo anagrafiche) dello stesso Paese. L’analisi di Antonio Mastrapasqua

L’istinto corporativo spunta anche quando si parla di pensioni. E si tratta probabilmente della corporazione più forte del Paese, composta da oltre 16 milioni di “titolari di prestazione” come si dice in burocratese. Quasi un terzo degli italiani incassa una pensione. Una conferma della crisi demografica dell’Italia, prima che della sua crisi di finanza pubblica. Sarà per questa forza preponderante della “categoria”, ma il tema delle pensioni continua a essere soggetto a una distorsione narrativa tutt’altro che marginale.

È pur vero che fra questi 16 milioni c’è la maggioranza degli iscritti al sindacato (ormai tutte le tre maggiori confederazioni contano più iscritti pensionati che lavoratori attivi) e una fetta rilevante di elettori, ma tutto ciò conferma l’approccio innaturale al tema.

Per anni si è continuato a immaginare la pensione come un ammortizzatore sociale. C’è una crisi aziendale o di comparto? Prepensionamento. C’è una categoria sociale forte da proteggere? Baby pensioni (ne paghiamo ancora gli effetti devastanti: più o meno 4 miliardi all’anno). Mentre la pensione dovrebbe essere “solo” il salario differito nel tempo, quando la capacità di lavoro si fa più flebile con l’avanzare dell’età. Tutto ciò al netto delle “pensioni” di natura assistenziale, che non sono pagate dalla contribuzione dei lavoratori, ma sono un trasferimento dalle entrate fiscali. Un’altra storia.

Anche intorno a “quota 100” si è innescata una retorica più forte dei fatti da raccontare. Innanzitutto sembra che si fossero sbagliate le previsioni. Stanziati 19 miliardi in tre anni, se ne sono spesi circa 10. Vuol dire che la “protezione” che si è ritenuto di stendere su soggetti cui consentire un’uscita anticipata – rispetto ai 67 anni previsti per vecchiaia – è stata immaginata troppo abbondante. La domanda è radicalmente diversa dall’offerta.

E allora, cancellata nottetempo la riga originariamente prevista nel Pnrr – “ln tema di pensioni, la fase transitoria di applicazione della cosiddetta Quota 100 terminerà a fine anno e sarà sostituita da misure mirate a categorie con mansioni logoranti’’ – stiamo precipitando di nuovo nei ghirigori normativi: quota 102, al posto di quota 100? No, meglio quota 41? Un nuovo rosario di scalini e scaloni – già visto – e di “salvaguardie”? Mi permetto di dire che non è questo il problema.

La pensione (e parlo di quella contributiva, non mi riferisco alle sacrosante – se controllate ed elargite solo ai veri bisognosi – forme assistenziali) non può essere sottratta al suo naturale alveo di riferimento: il lavoro. Il sistema a ripartizione collega stabilmente l’erogazione della pensione alla contribuzione dei lavoratori attivi.

Se non c’è lavoro (e dignitosamente retribuito) non c’è contribuzione; se non c’è contribuzione non c’è pensione. Se non si promuove il lavoro non c’è quota che tenga. Se i giovani non lavorano non c’è futuro per il Paese. C’è un legame indissolubile tra il lavoro dei giovani e la pensione, non solo la loro pensione futura, ma la pensione della generazione che li precede, perché la pagano loro; così come la loro sarà pagata dai loro figli.

Il problema di “quota 100” non è una nuova ingegneria previdenziale da allestire nella “fabbrica delle pensioni”, è il lavoro dei giovani. E il lavoro dei giovani non si produce prepensionando i meno giovani, ma favorendo l’imprenditorialità, semplificando il sistema produttivo, alleggerendo vincoli e fisco.

Il nuovo patto generazionale non è “sostitutivo”, ma integrativo: deve integrare l’attività dei giovani nel mondo del lavoro. Se i 9 miliardi risparmiati dalle previsioni di “quota 100” fossero destinati a un Fondo esclusivo per la promozione del lavoro dei giovani (sgravi contributivi per i primi tre anni? Defiscalizzazione parziale per le imprese che assumono i giovani?) avremmo fatto una scelta più equa e sostenibile per tutti, giovani, meno giovani, Paese intero.

Il patto generazionale di cui l’Italia ha bisogno non riguarda l’incontro tra due o più corporazioni – quella dei pensionati e quella dei Millennials o della generazione Z – ma l’integrazione solidale di due o più componenti (non solo anagrafiche) dello stesso Paese.

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