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Non di sola protezione (sociale) vive l’Italia. Scrive Mastrapasqua

Da mesi siamo l’unico Paese europeo che continua a prorogare il blocco dei licenziamenti. Misura che l’Europa ha bocciato. Quella stessa Europa che rende orgogliosamente europeisti molti politici che dichiarano di sostenere convintamente il governo Draghi che in questo caso è inascoltata. L’analisi di Antonio Mastrapasqua

C’è sempre una protezione per cui fare a gara. Gli scalini e gli scaloni delle pensioni. Quota 100 che diventi 102 o 90, poco importa, sempre per proteggersi dalla legge Fornero, la stessa norma che venne diluita con una serie interminabile di “salvaguardie” per tutelare gli esodati. E poi il reddito di cittadinanza, con le sue incongruenze strutturali. E prima la battaglia sull’articolo 18. Siamo sempre in cerca di una trincea da difendere, quasi mai con un obiettivo da conquistare. Con lo stesso spirito, da mesi siamo l’unico Paese europeo che continua a prorogare il blocco dei licenziamenti. Misura che l’Europa ha bocciato. Quella stessa Europa che rende orgogliosamente “europeisti” molti politici che dichiarano di sostenere convintamente il governo Draghi, in questo caso è inascoltata.

Invece posticipiamo sempre le riforme del mercato del lavoro, delle politiche attive soprattutto. Possibile che si ripetano sempre gli stessi riti di protezione? Intendiamoci, la protezione sociale è un dovere dello Stato e un diritto per i più deboli. Ma siamo sicuri che siano tutti deboli? Mentre ripetiamo il braccio di ferro per vedere chi è più vicino ai lavoratori, registriamo – da anni – il paradosso di lavori che non trovano occupati. Una distorsione del mercato del lavoro sulla quale si sono spesi chilometri di inchiostro, centinaia di dibattiti, tra ideologia di politici e tecnicismi di economisti, eppure siamo ancora qui.

A credere che si possa ripartire, bloccando il mercato del lavoro, mentre l’ultimo Bollettino mensile Excelsior (realizzato da Unioncamere e Anpal), scandisce le stesse difficoltà: sarebbe ancora al 31% la quota di assunzioni per cui le imprese dichiarano difficoltà di reperimento, in particolare nella ricerca di figure professionali più qualificate.

Dal Borsino delle professioni di Excelsior, infatti, le figure più difficili da reperire, oltre a quelle dirigenziali (52%), sono gli operai specializzati (45,9%), i tecnici (44,1%) e le professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione (42,5%). Per la ripresa le imprese puntano soprattutto su profili con elevate competenze che, però, fanno fatica a trovare sul mercato del lavoro: rispetto a giugno 2019 cresce del 95,2% la domanda di tecnici informatici, telematici e delle telecomunicazioni per cui si registra una difficoltà di reperimento del 62,6%.

Non si tratta di una sorpresa; che l’innovazione tecnologica sia uno dei driver del cambiamento ce lo ripetiamo ogni giorno. Ma nessuno che si sia posto il problema di preparare nuove risorse verso i nuovi obiettivi occupazionali. Sono molto ricercati e di difficile reperimento anche i tecnici specializzati nella gestione dei processi produttivi (+82% le assunzioni previste rispetto a giugno 2019 e una difficoltà di reperimento del 61,6%), così come gli operai addetti alle rifiniture delle costruzioni (+127% le assunzioni e una difficoltà di reperimento del 54,3%), i fonditori, saldatori, lattonieri, calderai, montatori carpenteria (+94,3% e una difficoltà di reperimento del 72,0%). Anche per le professioni sanitarie si registra una elevata crescita delle entrate associate a una maggiore difficoltà di reperimento: +56,1% le entrate programmate rispetto a giugno 2019 e una difficoltà di reperimento del 42,6%.

Una conferma, l’ennesima, che domanda e offerta di lavoro in Italia non riescono a incontrarsi. Un fallimento delle politiche attive del lavoro. Da anni. Eppure, il problema sembra quello di bloccare i licenziamenti. E di rimandare ancora di qualche mese la riforma degli strumenti che dovrebbero assicurare formazione, orientamento, supporto alla nuova occupazione.

Secondo i dati Eurostat, dall’inizio della pandemia sono aumentate le giovani e i giovani che non studiano e non lavorano in tutta Europa. Ma il non invidiabile primato spetta all’Italia, che si conferma essere il primo Paese europeo per numero di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) presenti sul territorio (20,7%), con un valore percentuale di circa 10 punti superiore alla media degli altri Paesi europei (12,5%). Nel nostro Paese ancora due milioni di ragazzi e ragazze tra 15 e 29 anni non lavorano e non studiano.

Sarebbe esagerato attribuire (tutte) le ragioni di questa tendenza all’introduzione del reddito di cittadinanza. Ma il timore che ci sia una inadeguata cultura del lavoro è più che fondato. Una ostilità per la cultura d’impresa è radicata. Luigi Di Maio ha chiesto scusa per il giustizialismo del Movimento 5 Stelle. Ma non ha fatto alcuna abiura dopo aver assimilato gli imprenditori italiani a cinici “prenditori”.

La “decrescita felice” è un esercizio ideologico che Latouche e Piketty possono permettersi, ma che nel linguaggio politico e sociale diventa un incubo. Genera mostri e talvolta continua a nutrire quelli creati dagli epigoni fuori tempo di qualche forma di socialismo reale. L’egualitarismo che ci piace è quello nelle condizioni di partenza, non quello che frena e impedisce le performance di gara. Lavorare stanca? Anche. Ma lavorare è l’unico modo per generare ricchezza, che a sua volta è condizione di ogni protezione sociale.

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