Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche

Non solo Afghanistan, vi spiego i disegni (antiamericani) di Cina e Russia. Parla Saini Fasanotti

Secondo Saini Fasanotti (Brookings/Ispi) il danno di immagine subito dagli Usa in Afghanistan potrebbe essere sfruttato da Cina e Russia su altri teatri. Per questo (e non solo) la missione poteva continuare

Gli articoli sui media di stato cinesi e russi che raccontano l’Afghanistan hanno un substrato comune: leggere la situazione in chiave anti-americana. L’obiettivo è sfruttare quello che accade al Paese dell’Asia Centrale – la riconquista del potere da parte dei Talebani e l’istaurarsi di un regime sharitico sotto il loro controllo – per attaccare l’America, accusarla di inconsistenza, di aver tradito i propri alleati e soprattutto i propri impegni e ideali.

Secondo Federica Saini Fasanotti, analista della Brookings Institution e dell’Ispi, quanto accade è un grande danno di immagine per gli Stati Uniti che ora gli avversari intendono sfruttare. “Pechino e Mosca, seppure con le loro grandi diversità, hanno interesse diretto a gestire quanto accade in Afghanistan, con un’orientamento specifico verso gli affari e il controllo delle minoranze musulmane, senza interesse minimo ai diritti, e con l’obiettivo di evitare che quel che accade possa creare loro un problema interno a livello di sicurezza”, spiega a Formiche.net.

E però dietro sembra esserci anche molto di più, un confronto tra modelli, dove quello russo e cinese vengono raccontati come più credibili, anche sfruttando quanto accade a Kabul. “Gli Stati Uniti escono a pezzi – continua Saini Fasanotti – e Cina e Russia intendono usare quello che emerge dalla disastrosa fine dell’esperienza afghana per spingere i propri interessi anche altrove. Da storica, non posso che sottolineare che è la forza delle immagini che resta, e come lo furono le Torri Gemelle che si sgretolano, ora resteranno quelle dei ragazzi afghani aggrappati all’aereo cargo statunitense sulla pista di Kabul e quelle dei loro corpi che cadono al suolo dopo il decollo”.

Secondo l’analista quelle immagini rappresentano “la ritirata strategica americana dallo scenario globale”, una mossa che potrebbe rappresentare un sostanzioso vantaggio per i rivali del modello occidentale americano. È una retrocessione degli Usa dal ruolo di potenza globale? “Cosa significa essere una potenza globale? Bisognerebbe prima di tutto chiedersi questo: certamente significa controllare quanti più scenari possibili, avere controllo tattico in più scacchieri (e soprattutto influenza), però assumersi questi oneri comprendo sia complicato”.

Saini Fasanotti conosce bene l’argomento: nel 2014 ha scritto il saggio “Storia militare dell’Afghanistan: Dall’Impero dei Durrānī alla Resolute Support Mission“(Ugo Mursia Editore) con una prefazione di John Allen, generale quattro stelle statunitense, ex capo della missione Isaf, coordinatore della missione che ha combattuto il Califfato, stratega militare tra i più colti e ora presidente della Brookings Institution. “Dal punto vista tecnico la missione poteva restare, non serviva un ritiro così frettoloso come d’altronde hanno sottolineato diverse voci dal Pentagono: si trattava di mantenere la presenza fissa di un modesto contingente, dai costi molto limitati, che però aveva il ruolo di tenere sotto controllo le forze centrifughe del Paese, raccogliere intelligence e più che altro evitare questa frana d’immagine a vantaggio dei rivali statunitensi”.

L’amministrazione Biden ha proceduto al ritiro di ciò che restava del contingente in Afghanistan, 2.500 militari, implementando un accordo chiuso dal presidente Donald Trump direttamente con i Talebani lo scorso anno. Con il ritiro americano anche gli altri dispiegamenti Nato hanno lasciato il Paese. La data fissata per il rientro era l’11 settembre (spostata da Joe Biden, visto che secondo l’accordo precedente doveva essere a maggio). L’avanzata talebana ha ovviamente coinciso con la riduzione drastica della presenza militare occidentale.

“La vera meta della guerra in Afghanistan era il controllo strategico di quel safe haven cruciale per l’estremismo salafita, situato in mezzo all’Asia Centrale, area altrettanto strategica per la sovrapposizione di tanti interessi e attori. Quando i soldati americani e Nato arrivarono nel Paese ebbero conferma che le condizioni generali erano perfette per l’attecchimento delle istanze jihadiste dei Talebani e di al Qaeda (diversa la questione dell’autoproclamatosi Stato islamico), dunque la missione ha avuto come obiettivo, in funzione antitalebana, l’emancipazione del Paese; una rivoluzione alla radice che, ovviamente, non poteva avvenire in una manciata di anni”, spiega Saini Fasanotti.

È evidente quanto i fatti di questi giorni si scontrino con questi obiettivi: dopo vent’anni dalla loro cacciata i Talebani sono tornati a imporre il loro regime e mirano a una sorta di riconoscimento internazionale. Il punto è chiaro: c’erano necessità politiche negli Usa che hanno portato prima Barack Obama, poi Donald Trump e infine Joe Biden verso la decisione di chiudere in fretta la missione. Un recente sondaggio dell’Associated Press dice che il 62 per cento degli americani non reputava più utile estate in Afghanistan, ma “il problema è che, sebbene sia durata venti anni, l’obiettivo della missione non è stato raggiunto e per questo doveva essere proseguita”, commenta Fasanotti.

“Duemilacinquecento uomini – continua – sono niente se si considera il numero di operativi statunitensi, e sono niente anche a livello di costi sia economici che umani, anche perché ormai la missione militare era passata al ruolo di advisory alle forze locali e, soprattutto, di raccolta di intelligence. La loro presenza, seppur esigua, permetteva che altre missioni continuassero, in primis la scolarizzazione. D’altra parte prendiamo l’esempio delle Coree: al Nord c’è un regime oscurantista decadente con condizioni di vita pessime, al Sud c’è una nazione tra le più evolute, motore dello sviluppo tecnologico, in buona parte proprio grazie alla presenza decennale degli Stati Uniti. La US Force Korea conta 32mila militari sul suolo sudcoreano, presenti lì dal primo luglio del 1957. Si tratta di complicati investimenti a lunga gittata. Questo significa essere una Potenza globale”.

Exit mobile version