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Francia e Cina, il doppio strike di Biden. Scrive Arpino

Il patto Aukus svela la long-strategy di Joe Biden. Liberarsi del pantano Afghanistan per impantanare il vero avversario, la Cina, nell’Indo-Pacifico. E con un solo colpo si è liberato di due spine, a Pechino e Parigi. L’analisi del generale Mario Arpino

Nonostante i numerosi Summit che vediamo continuamente fiorire (G-7, G-20, Vertice della Nato, ecc.) e i numerosissimi colloqui bi o multilaterali, i reggitori delle cose del mondo evidentemente non si parlano abbastanza. Ma siccome invece parlano, evidentemente lo fanno male, formalizzando dialoghi tra sordi su argomenti che non rilevano, o rilevano poco, sui gradi temi della pace nel mondo. Prova ne è che le Relazioni internazionali non sono andate mai cosi male come in questi ultimi scorci di tempo, e continuano a peggiorare.

Se il clima è stato senz’altro avvelenato dagli eventi in Afghanistan e tutta la colpa del declino della credibilità occidentale viene riversata sulle modalità del ritiro del contingente statunitense, siamo fuori strada, perché stiamo analizzando il dito, e non la luna.

Sì, perché si tratta di un fattore contingente, non di un processo iniziato da anni e destinato a durare nel tempo. Perché ciò che stiamo vivendo è infatti una fase del declino di una Civiltà: la nostra. É questo il contesto nel quale oggi dobbiamo osservare ogni accadimento, ponendoci molti perché.

L’ultimo è l’affaire AUKUS (Acronimo di Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti), il patto a tre secondo il quale l’Australia, che aveva una precedente intesa con la Francia per l’acquisizione di una dozzina di sottomarini, ha sottoscritto una nuova alleanza a tre con i due Paesi anglosassoni “per rafforzare la cooperazione nelle tecnologie avanzate di Difesa, migliorando le “…comuni capacità di affrontare le minacce del XXI secolo”.

Il riferimento al pivot Indo-Pacifico di Joe Biden (ma di obamiana memoria) e all’espansione politico-militare della Cina nella regione è più che evidente. Come è evidente, in questo quadro, che i 12 nuovi sottomarini di cui si doterà l’Australia per motivi di omogeneità saranno di tecnologia anglosassone, e non francese. Anche gli armamenti, presumibilmente missili da crociera non nucleari a lungo raggio, saranno di progettazione statunitense. È utile rammentare che, a differenza dei “sommergibili”, i “sottomarini” sono mezzi subacquei con grandissima autonomia oraria e chilometrica, in immersione anche profonda. Questa capacità può essere ottenuta, allo stato attuale, solamente con l’utilizzazione di motori a energia nucleare (N.di R.).

La Francia naturalmente non l’ha presa bene, ha protestato e ha richiamato gli Ambasciatori (cosa mai verificatasi tra Paesi alleati) con la formula delle “consultazioni”, ma la risposta australiana è stata immediata, del tipo: “Non è una volta faccia, ma una necessità. Per la nostra difesa dobbiamo badare al nostro interesse, come fate voi”.

È vero. Qualcuno sicuramente ricorderà l’accordo con Fincantieri per l’acquisizione di parte della cantieristica militate, firmato da Sarkozy e poi rinnegato e modificato da Macron. Una risposta del tipo australiano è giunta anche dagli Stati Uniti, mentre la Cina, punta nel vivo da questa inattesa reattività di Biden, ha commentato l’accordo come “azione irresponsabile”. Parole grosse. Nel frattempo, le agenzie hanno diffuso la notizia che gli Usa a partire dal 24 settembre ospiteranno un Vertice con Australia, India e Giappone. Ciò nel quadro di un’alleanza denominata Quad, sinora poco attiva, ma creata già nel 2007 per studiare come fronteggiare la crescita militare cinese. Pechino, naturalmente, prevede azioni di ritorsione economica contro l’Australia.

Evidentmente Biden ha fatto del Pivot to Indo-Pacific il cavallo di battaglia del suo mandato. Tutto il resto diventa secondario, e ogni sua azione già trascorsa o futura va d’ora in poi valutata con questo sfondo. Ai tempi di Obama il pivot era fallito a causa non solo della velletarietà di un numero eccessivo di programmi, ma soprattutto per la discontinuità di propositi delle potenze del Pacifico allora coinvolte.

Il presidente dovrà affrettarsi a cooptare nuovamente, assieme al Giappone, anche l’Indonesia e la Corea del sud. Se non si muoverà per concludere, certamente cercherà di farlo la Francia, per la quale una totale esclusione dal Pacifico (dove ancora possiede qualche isola) continua ad essere non digeribile. L’obiettivo è contenere la Cina. In attesa di un Reagan che ha saputo abbattere l’Unione Sovietica senza sparare un solo colpo di fucile, vedremo cosa saprà fare il nuovo Presidente. Se ci voltiamo per guardare le gesta dei presidenti democratici negli ultimi cent’anni, sebbene abbiano vinto due guerre mondiali, tutte le altre (magari più piccole) le hanno perse. Non c’è da stare allegri.

Biden cerca di fare il pragmatico, pur essendo il suo un modus di stampo ideologico. Per far crescere l’America, ha bisogno di esercitarsi contro un “punchball” pesante e la Cina, con il suo comportamento e la sua dimensione, si presta egregiamente ad essere il bersaglio ideale. Ciò che ultimamente ha sorpreso tutti, è questa impennata di attivismo unilaterale degli ultimi tempi: il ritiro senza consultazioni, gli schiaffi a destra e sinistra, compresa la Nato, i moniti (invero blandi) alla Russia, lo sgarbo alla Francia e l’implicita (ma neanche troppo) “dichiarazione di guerra” al Celeste Impero.

Viene un sospetto, purtroppo surreale: e se l’abbandono repentino dell’Afghanistan fosse invece una trappola ben congegnata per impantanare la Cina lontano dall’Indo-Pacifico? Come polpetta avvelenata, niente male. In pochi giorni avrebbe eliminato un “disturbatore” (la Francia) e messo in difficoltà un “nemico” (la Cina). Geniale!

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