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L’esodo dei “minatori” cinesi verso il Texas. Tra bitcoin e blackout energetici

Dopo il conto da 3 mila miliardi di dollari della repressione su Alibaba&co, il grosso delle società di mining che estraggono la criptomoneta lascia il Paese alla volta del Texas. Un altro pezzo di industria tecnologica polverizzato…

In Italia la si potrebbe definire transumanza, la migrazione stagionale del bestiame dai pascoli di pianura a quelli delle regioni montuose e viceversa. Se al posto degli animali ci sono i Bitcoin, poco cambia però. La Cina, dopo aver fatto a pezzi il comparto del Fintech pagando, almeno fino ad oggi, un conto di 3 mila miliardi di dollari, sta assistendo non certo impotente alla dissoluzione di un altro segmento dell’industria tecnologica, quello delle criptovalute. Poco sembra importare a Pechino della fuoriuscita dei capitali nell’economia del Dragone, ma presto o tardi qualche effetto collaterale potrebbe anche esserci.

Tutto è cominciato al principio dell’estate, come raccontato da Formiche.net, quando dalle autorità regolatorie della Repubblica Popolare è partito l’ordine di mettere fuori legge i miners, ovvero gli estrattori di Bitcoin (che da oggi diventa ufficialmente moneta legale a El Salvador). C’è da dire che i server utilizzati per tale attività di estrazione sono tra i più energivori al mondo, al punto da necessitare di un fabbisogno simile a quello dell’Argentina. Dunque dannosi per l’ambiente.

Si parla di circa di circa 112,57 tetrawattora ogni anno e se si considera che la Cina ha estratto i due terzi dei Bitcoin mondiali nel 2020 arrivando a coprire il 65% del mining globale non può stupire l’emissione di 113 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Tutto cioè premesso, è in atto un vero e proprio esodo del Bitcoin con molte, moltissime, società che lavorano sull’estrazione che stanno cercando di lasciare la Cina. Per andare dove? La Terra promessa sembra essere il Texas, il gigante americano cuore energetico degli Stati Uniti complice la sua anima petrolifera. Ma che proprio lo scorso febbraio, complice il gelo, ha subìto uno spaventoso blackout che ha paralizzato gli Usa, costando agli States qualche decimo di Pil.

C’è per esempio il caso di Bit Digital, forte di circa 20 mila computer nella provincia dello Sichuan, costretta ad affrontare in queste settimane costi di imballaggio e spedizione molto alti, mentre un singolo computer per estrarre Bitcoin è arrivato a costare oltre 12 mila dollari. Bit Digital, ha scritto il Wall Street Journal, ha detto di avere ancora quasi 10 mila macchine nella provincia cinese. Per muoverle, la società si è rivolta alle multinazionali della logistica e spera che tutto l’hardware possa arrivare nel Nord America entro settembre.

Non è tutto. I computer che dalla Cina entrano negli Stati Uniti sono anche soggetti a dazi del 25%.  Ancora, la società cinese di mining di criptovalute Poolin ha deciso di andarsene dalla Cina una volta per tutte, alla volta degli Stati Uniti. Con sede a Hong Kong, Poolin è la seconda rete di mining più grande al mondo, con la maggior parte delle sue operazioni concentrate nella Cina continentale. Almeno fino a ieri.

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